Un sogno chiamato Florida
Con uno sguardo vivace e toccante, attraverso gli occhi incontaminati dell’infanzia, Baker esplora la necropoli dei sogni abortiti che si estende all’ombra di Walt Disney World Resort, Orlando.
Kissimmee, Osceola County, Florida. Uno spigoloso stabile alberghiero, di un’accecante tonalità lavanda, si staglia contro un cielo terso e sporadicamente oscurato da torreggianti manifesti pubblicitari, che declamano “Stay in the Future Today” e “Machine Gun America”. Un tempo albergo low-cost per turisti attenti al budget, il Magic Castle Motel è ora la dimora transitoria di un sottoproletariato tatuato, incolto e narcisista, costituito da famiglie indigenti e prive di radici. I suoi fatiscenti spazi monocromatici costituiscono il reame di Moonee (Brooklynn Prince), incontenibile enfant sauvage di sei anni che vive con la madre ventunenne, un’ex-spogliarellista dall’indole ostile e dalla sbiadita chioma turchese. Moonee trascorre le afose settimane estive in compagnia dei suoi amichetti, Scooty (Christopher Rivera) e Jancey (Valeria Cotto), istituendo una piccola associazione a delinquere di adorabili canaglie. Tra gare di sputi sulle macchine, gelati clandestini ed esperimenti piromani condotti in rovine suburbane kitsch e fluorescenti, questi discepoli inconsapevoli della Great Recession trasfigurano lo squallore e la miseria in cui vivono ogni giorno in un divertimento incantato, mentre i rispettivi genitori cercano di racimolare i 35$ necessari per assicurare al proprio instabile nucleo famigliare una casa a cui fare ritorno, la sera.
In piena sintonia con l’exploit flamboyant di Tangerine – incandescente indie movie dal micro budget, ripreso integralmente con l’ausilio di un iPhone 4s – Sean Baker prosegue la sua ricerca del vero nelle realtà disfunzionali ai margini del tessuto sociale statunitense, servendosi per l’occasione di un formato widescreen 35mm e di risorse produttive notevolmente incrementate, per i suoi noti standard.
Acclamato nel contesto della sua premiere al Festival di Cannes, in cui ha esordito nella sezione Directors’ Fortnight, Un sogno chiamato Florida consiste in un virtuosistico saggio neorealista sullo sconfinato potere della meraviglia che abita l’infanzia in ogni aspetto della sua dimensione quotidiana – a prescindere dalle condizioni degradanti in cui essa viene vissuta. Appropriandosi della denominazione provvisoria con cui Mr. Walt Disney negli anni ‘60 definiva il progetto cartaceo del suo celeberrimo parco tematico, l’eclettico regista del New Jersey riesce nell’impresa di sublimare con estrema delicatezza il degrado periferico del Magic Kingdom, in una soluzione narrativa capace di trascendere sia il realismo magico che quello sociale, schivando al contempo le insidie del “poverty porn” e di un facile patetismo di genere.
Al suo sesto lungometraggio in diciassette anni di carriera, Baker affianca il volto celebre di Willem Defoe al suo consueto cast di esordienti, prevalentemente non professionisti. L’attore americano interpreta con sensibile maestria Bobby, il rude manager del tentacolare motel violaceo, sperduto tra surreali diner e negozi di souvenir da pochi dollari. Quella personificata da Defoe è una figura patriarcale dotata di una solida fibra etica, che veglia silenziosamente sui bambini degli irresponsabili affittuari, per la maggior parte del tempo privi di una vera e propria supervisione adulta. Oltre a proteggere l’innocenza dei suoi piccoli inquilini – spesso vittime delle viscide attenzioni dei predatori pedofili che infestano la zona – Bobby è anche un uomo divorziato pieno di livore, che ha problemi a relazionarsi con suo figlio Jack (Caleb Landry Jones), ormai cresciuto. Ciononostante, a mantenere il manager particolarmente inquieto è proprio Halley (Bria Vinaite), la madre-bambina di Moonee, una potenza muliebre che eredita la tempra combustibile dell’incendiaria coppia di prostitute transessuali di Tangerine. Halley è una vipera combattiva e sfrontata, che ostenta la propria autorità disprezzando visceralmente quella costituita: uno specchio comportamentale che Moonee cerca spesso di imitare con la sua ingenua e tenera insolenza. Ma la giovane si rivela anche una genitrice amorevole che farebbe qualsiasi cosa per la figlia, compreso mercificare il proprio corpo.
Scoperta su Instagram dal regista, Bria Vinaite recita sostanzialmente il ruolo di se stessa, investendo il set con una veemenza dirompente corredata di piercing, tatuaggi appariscenti e svariati selfie con un blunt serrato tra le labbra. Nella totale assenza di relazioni stabili, tra frequenti deflagrazioni di violenza verbale e fisica, il suo personaggio si ritrova a crescere la figlia completamente da sola, con diete ipercaloriche a base di waffle, sciroppo d’acero e Coca-Cola, alimentando al contempo la fervida immaginazione della bambina con gioielli di plastica, ali di fata posticce e competizioni pubbliche di emissioni gastro-intestinali, nell’estremo tentativo di preservare un lieto ideale di infanzia. In tale milieu gli unici riferimenti culturali di Moonee sono le playlist hip-hop e Ghettotech diffuse a tutto volume dagli speaker del cellulare della genitrice, oltre ai programmi trash su cui gli schermi televisivi del Magic Castle Motel risultano assiduamente sintonizzati. Ma una delle principali attività quotidiane madre-figlia consiste nel mostrare il dito medio ai frequenti elicotteri dei villeggianti facoltosi e apatici che solcano i cieli sopra di loro, insieme allo spettro dei servizi sociali.
Distribuito da A24, Un sogno chiamato Florida proietta una rinnovata luce sulle comunità americane che oggi cercano di sopravvivere al di sotto della soglia di povertà, senza ricorrere all’atto criminoso come strumento di rivalsa sociale. Illuminando una zona oscura dell’impero della fantasia, il DOP messicano Alexis Zabe assorbe lo spettatore in un delicato misticismo realista sin dal primo frame, da cui emerge progressivamente la genuina effigie di un’infanzia solare e impetuosa. Attraverso una costruzione frontale e geometrica, incorniciata sovente da macchine da presa posizionate ad altezza bambino, Zabe e Baker indagano il microcosmo umano che gravita intorno a Disneyland, fruendo di un punto di vista privilegiato. Alla coinvolgente fotografia si combina una perfetta direzione dei piccoli attori, in cui emerge il talento precoce di Brooklynn Prince, una radiosa portatrice di caos che conferisce inesauribile linfa vitale alla rodata scrittura sinergica del regista con Chris Bergoch, produttore dell’opera insieme al filmmaker.
Moonee è una creatura innocente che sa sempre quando gli adulti di fronte a lei stanno per piangere, sebbene non sia ancora in grado di riconoscere la sofferenza dentro di sé. Sulle fondamenta della sua insostenibile epifania del dolore viene edificato un intenso finale, in cui documentario e finzione si ritrovano a convergere in un lirismo emotivamente destabilizzante. Inseguita da una verità asettica e brutale, la bambina si ritrova a varcare i cancelli dell’inaccessibile Magic Kingdom, alla ricerca di un rifugio sicuro nei meandri della bulimia del desiderio. In queste ultime e fugaci inquadrature – riprese in puro guerrilla-style digitale, senza alcuna autorizzazione da parte del parco – è possibile scorgere l’essenza del sublime affresco generazionale di Sean Baker, compendiato in una corsa disperatamente reale verso un futuro artefatto e irraggiungibile, sommerso dalle macerie epicuree del sogno americano.