Tra cinque minuti in scena

Invisibile anomalo, questa settimana. Mantello d’ordinanza, di quelli indossati da chi è costretto a vivere nell’ombra suo malgrado, mise obbligatoria per ogni titolo che si affacci sulle pagine di questa sezione. Tra cinque minuti in scena ha qualcosa in più o in meno rispetto a chi nelle settimane, mesi, anni passati l’ha preceduto ne I sotterranei; in più o in meno a seconda del punto scelto per l’osservazione della sua parabola: percorso ascendente che dalla luce artificiosa di un set (un palcoscenico) condurrà l’opera sino al buio bramato di una sala oppure luce divina che si abbatte su un’opera tra mille, barlume che si accende e sembra dirci che lì intorno ce ne sono altri mille di set da illuminare, o di sale da riempire.

Tra cinque minuti in scena è amore puro, sentimento, corrispondenza d’amorosi sensi. Mille forme che si plasmano e s’intrecciano inseguendo sempre quel medesimo afflato, in grado di unire una figlia alla madre, un’impresario ad un’attrice, quella stessa attrice alle tavole un po’ sudicie di un palcoscenico di secondo ordine. Sentimenti che viaggiano disordinati nell’opera, creando un caos entro il quale tutto conduce verso il delinearsi di emozioni comuni, che uniscono individui dissimili. Commistione, miscela, caos. Tutto gli elementi si centrifugano, creando legami perfino laddove nulla sembra poterli tenere insieme. Scelte di fotografia (un bianco e nero smaccatamente posticcio per la scena teatrale) alzano il muro che separa la messa in scena dalla realtà, ma oltre il limite imposto di una divisione stilistica, il fuoco si mischia, creando fiamma di un’umanità ardente, che ricorda soventemente il Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

Gianna è una donna di straordinaria forza d’animo, accudisce la madre degente con la maniacalità di chi vuole restituire minima parte del bagaglio emotivo riempito dell’affetto di una vita, affetto vicendevole, ebbro in entrambe le sue componenti, pendente ora in direzione di chi ne abbisogna. Gianna non è solo una figlia devota, è anche un’attrice intenta a trasportare la sua sofferenza su un palcoscenico per farne altro: assi di legno, scenografia, indicazioni del regista, tutto sembra architettato perché si faccia spugna, atta ad assorbire ed espellere in altra forma. Teatro e realtà che si uniscono attraverso il cinema, labirinti espressivi che tendono verso una sintesi wagneriana delle arti, seppur manchevole di molte componenti. Tra cinque minuti in scena è il risultato di una ricetta complicata, nel quale ingredienti impensabili entrano a contatto, generando una combo di sapori che lasciano perplessi, che fanno storcere il naso per la sensazione di quel gusto che manca alla nostra esperienza (papille gustative che si fanno sguardo per lo spettatore), fino a che i muscoli facciali possano rilassarsi in un’espressione sorpresa, accomodante ed infine compiaciuta. Ingrediente base è una messa in scena audace, che fa dialogare due espressioni distanti come cinema e teatro, lasciando che l’una e l’altra compiano il proprio corso senza accavallarsi o reclamare una superiorità che non avrebbe ragion d’essere; lo stile amalgama, pone una cesura dove occorre e unisce quando serve, lavoro certosino di montaggio, nel montaggio stesso e nell’azione, nelle parole e negli sguardi.

Laura Chiossone si cela dietro questo dialogo continuo, nel quale tutto si confonde, creando un divenire eracliteo di rimandi che saltano dal teatro al cinema al documentario all’ermeneutica senza soluzione di continuità. Un cinema donna, dalle redini fino a chi lo traina, nel quale personaggi femminili si ergono meravigliosamente, dove Gianna e Anna – rispettivamente Gianna ed Anna Coletti – dirigono i fili del racconto, passandosi la palla di una recitazione che non alza mai il tono, teatrale nella vita e asciutta nella rappresentazione, straordinariamente aderente al senso della narrazione. Tra cinque minuti in scena è un esemplare atipico, che ha in comune con molte opere prime qualche neo (una voice off a tratti troppo ingombrante) ma che si distingue per l’enorme coraggio e la disinvoltura con la quale prende di petto una narrazione ed una messa in scena mai banali. Categoria degli audaci, dei coraggiosi (laddove non romantici, vagamente utopisti) alla quale non si può non ascrivere Parthenos, casa di distribuzione che – assieme alla Rosso Film – si cela dietro questo lavoro e che fu già artefice dell’arrivo in sala di Io sono Li, altro folgorante esordio al lungometraggio (allora si trattava del chioggiano Andrea Segre).

Invisibile atipico dicevamo, pronto ad apparire fugacemente in sale che probabilmente si troveranno dall’altra parte di qualsiasi anfratto di qualsivoglia città in cui si trovi l’illuminato aspirante spettatore; senza quell’orrido mantello che nasconde perle dell’audiovisivo (sì, anche nostrano!) spetta solo a noi attraversare la città per sentirci meno soli in quella saletta che dista chilometri da casa.

Autore: Marco Giacinti
Pubblicato il 19/08/2014

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