Your Face
Il cinema di Tsai Ming-liang non è mai stato così vivo come dopo la sua (presunta) morte. Liberato da qualsivoglia vincolo produttivo o strutturale, il regista taiwanese continua a spingersi oltre le soglie di quello che viene comunemente considerato cinema, esplorando in tutte le direzioni possibili lo spazio ed il tempo dell’immagine.
Il cinema di Tsai Ming-liang non è mai stato così vivo come dopo la sua (presunta) morte. Liberato da qualsivoglia vincolo produttivo o strutturale, il regista taiwanese continua a spingersi oltre le soglie di quello che viene comunemente considerato cinema, esplorando in tutte le direzioni possibili lo spazio ed il tempo dell’immagine. Dal più impercettibile scarto motorio (Il ciclo Walker) allo spazio espanso della Virtual Reality (The Deserted), passando per il set riconquistato di Afternoon fino a questo sorprendente film-ritratto, il viaggio “post-mortem” del cinema di Tsai Ming-liang mira a rintracciare nel cuore stesso dell’immagine l’ipotesi di una nuova possibilità espressiva, dilatando o comprimendo l’inquadratura fino al più estremo cortocircuito spazio-temporale.
Ecco allora che dall’immagine-ambiente di The Deserted, dove il tempo era sostanzialmente abolito, passiamo qui al suo opposto, ovvero alla negazione della spazialità, sostituita dai volti in primo piano di dodici persone. La superficie dell’immagine coincide dunque con il paesaggio del volto. Un volto quasi sempre anziano (dai cinquant’anni in su) che reca su di sé i segni indelebili del tempo trascorso: la pelle, gli occhi, le rughe… raccontano intere esistenze vissute all’ombra della Storia. Vite anonime alle quali Tsai Ming-liang dedica intensi ritratti in bilico tra la luce e le ombre, tra la memoria del corpo o della parola, ed il mistero del fuoricampo. Tutto compreso dentro il perimetro ristretto dell’immagine, sintesi di diversi strati temporali. La durata dell’inquadratura, prima di tutto, che definisce il tempo della presenza, e poi il paesaggio del volto, filmato come un’esteriorizzazione fisica del tempo, come traccia o segno del passato, ed infine il ricordo, nella sua dimensione verbalizzata.
Un film quindi sul tempo e sulla malinconia del tempo filmato come fosse un lungo provino, in cui l'apparente ricerca dei volti coincide con il film stesso. Una ricerca aperta alla pluralità espressiva del volto che è anche, inevitabilmente, una sfida di sguardi, tra quello della macchina da presa e quello dei soggetti filmati. C’è chi, come la prima donna, che vive con un senso di estraneità e quasi di angoscia la prossimità della camera e cerca con il movimento degli occhi una possibile via di fuga. Chi, al contrario, contraccambia lo sguardo della macchina o ancora chi passivamente si abbandona ad esso in un atto a metà strada tra fiducia e fatica. Similmente si potrebbe dire della parola, negata dalla maggior parte dei soggetti, sostituita dalla semplice presenza fisica, testimonianza dell’unicità di ogni singola persona (e dunque di ogni singola traiettoria umana). Quando invece si stabilisce un dialogo, il racconto segue inevitabilmente la strada del ricordo e del rimpianto, del senso di colpa e della consapevolezza della perdita. Fino a sfiorare il melò, tra matrimoni combinati, desideri frustrati, rapporti conflittuali con i genitori.
Ma per ogni parola detta ce n’è almeno un’altra solo pensata. La sfida apparentemente impossibile del film sta proprio nel far emergere le immagini interiori che ci abitano. Quasi un film-inconscio fatto di immagini mentali che appartengono tanto allo spettatore, chiamato a superare la mera contemplazione nel tentativo di decifrare i volti e le storie che vi si celano dietro, quanto soprattutto ai soggetti ripresi, divisi tra la parola ed il silenzio, il piacere dell’esibizione e una certa discrezione, i micro-movimenti del viso ed i pensieri che li precedono e li producono. Una comunicazione segreta, quella tra spettatore e soggetto, come un atto telepatico, che si muove lungo le linee astratte del pensiero. In un percorso che non può che includere anche l’immagine di colui che dorme (sogna?) – punto di incontro naturale con lo spettatore cinematografico. E che giunge fino all’inevitabile scomparsa del corpo, ad un’immagine fantasmatica fuori dalla storia e allo stesso tempo sintesi di tutte le immagini mentali possibili.