Tutte le anime del mio corpo
Erika Rossi traccia un delicato eppure potente solco nella geografia di memorie della Resistenza
Erika Rossi, regista triestina, firma Tutte le anime del mio corpo, una delicata eppure potente genealogia e geografia identitaria. Non nuova alla scavo psicologico, che coniuga luoghi e individui (importante la sua filmografia su Trieste e la rivoluzione basagliana) Erika Rossi vince la sfida del found footage, facendo dialogare fondi nazionali di film amatoriali di famiglia, repertorio Anpi di Torino e Archivio fotografico delle Suore della Provvidenza di Gorizia.
Messa in campo è una complessa questione di memorie rifratte sul doppio binario individuale/sentimentale e collettivo/storiografico. Da un lato il rapporto ciclico, alternato e speculare tra figlia e madre, quando ciascuna da donna adulta e a propria volta madre, ripensa alla figlia che è stata per la madre incompresa; dall’altro la lotta di liberazione partigiana nei territori di confine Italo - Sloveno, quel Friuli secolare crogiolo di rivendicazione e armonizzazione d’etnie, germanica, slava e latina.
Per questo il titolo del film, estratto dalle pagine dei diari giovanili di Maria Antonietta Moro, combattente partigiana, prima tra le fila degli antifascisti jugoslavi poi reclutata dalla Resistenza italiana, figlia di quella terra, potrebbe benissimo calzare tanto alla parabola personale che si va rinvenendo, quanto al paesaggio geopolitico stesso, conteso e martoriato dai nazionalismi di volta in volta imperanti, ridisegnato dalle sottomissioni intestine, sino agli orrendi scenari genocidi. Travaglio di confini fisici, culturali, ideologici che serpeggiano senza coincidere e si contraddicono per sentire e appartenenza.
Filo conduttore, ai giorni nostri, è l’osservazione della vita quotidina della figlia di Maria Antonietta, Lorena Fornasir e suo marito; il pedinamento di questo loro fare i conti con la scoperta di un passato insospettato e la responsabilità memoriale tanto personale, quanto pubblica che ne hanno assunto. Lorena lavora presso un presidio socio-assistenziale a Cordenons (Pordenone), la cui insegna riporta "Friuli occidentale" (retaggio del fronte di separazione territoriale) segue le procedure d’adozione e il monitoraggio d’inserimento dei minori nelle nuove famiglie. Lei, che oggi deve rileggere in una luce totalmente inedita la propria infanzia, quel tempo in cui tutto la portava ad idealizzare la figura paterna (Ardito Fornasir, medaglia d’argento alla Resistenza) a discapito di quella materna relegata ai fornelli. Ed è proprio lì, ai margini del focolare domestico che s’annida la presunzione di aver vissuto la madre-moglie che cucinava un ottimo coniglio per tavolate d’ospiti, piatto che Lorena non è mai riuscita a riproporre con lo stesso successo di delizia. Perchè solo oggi scopre che i gesti d’identificazione dovevano essere altri, quelli offuscati d’irrilevanza nel dominante gioco patriarcale dei ruoli. Torna alla mente quando durante gli scioperi di protesta sotto il governo Scelba, cui Ardito partecipava quale politico e sindacalista di spicco, sua madre le poneva in mano dei sassi da sferrare contro le forze di polizia qualora avessero aggredito la folla. Avrebbe mai potuto tale ricordo destare dubbi sulla subordinazione delle donne nel dopoguerra che ricacciò la maggiornaza della forza lavoro femminile tra le mura domestiche?.
Maria Antonietta Moro come i suoi fratelli maschi è annoverata tra i combattenti partigiani dalle fonti d’epoca, ma la sua fu un’azione di risoluto spionaggio in seno al lavoro d’infermiera della croce rossa (professione a vocazione prettamente femminile) a Gorizia. Le pagine di diario restituiscono tutta la tensione di coperture e sotterfugi che solo personalità irreprensibili e insospettabili avrebbero potuto sostenere, soprattutto la forza solidale, fondamentale comunione d’intenti, delle ragazze pronte a rischiare la vita, non perchè rette da fedi politiche, ma in virtù della difesa della vita stessa: "La notte di Natale del ’42 ’le inseparabili’ sottrassero al fuoco nemico tre antifascisti condannati a morte". Alle pagine clandestine Maria Antonietta affida i pensieri più terribili e reconditi ma mai, mai, il suo nome reale; finchè è di stanza a Gorizia lei è Natasâ "Italiana per natali, ma non per sentimenti", poi dopo l’8 Settembre, di missione ad Udine assumerà il nome di Anna. Conclusa la guerra, per i familiari è invece Tony, come scappa di chiamarla al nipote, figlio di Lorena. Tony è stata la moglie e la madre, la donna anziana che nei ricordi della figlia con semplicità ed umiltà non smetteva di sorprendersi delle piccole gioie e bellezze della natura.
Spetta al marito di Lorena, il filosofo Gian Andrea Franchi ( lo si vede dalla puntualità e cura del pensiero tradotto in parole) essere faro nel mare di alibi, rimpianti e rimorsi in cui ora navigano. Sua infatti, la migliore chiave d’interpretazione di questo complesso e intimo percorso di ricostruzione, tanto per loro, quanto per lo spettatore: "solo dopo la morte, la lettura dei diari avrebbe potuto conferie all’esperienza militante e umana di Maria Antonietta quella giusta distanza necessaria per accoglierne l’oggettiva portata di valore. Perché "ogni cosa fosse illuminata" dalla dimensione congiunta di lontananza ( l’irrimediabile mancanza fisica) e vicinanza (la concreta percezione di cosa resta in chi resta al mondo). I diari sono stati riposti, non sono stati distrutti, e la dimenticanza non vale come colpa o negazione, ma al contrario come vincolo d’autenticità dello spirito dell’autrice, che con probabilità vedeva la nuova anima del proprio corpo, donna matura, madre e moglie, filtro alterato, dei pensierie e delle azioni della coraggiosa giovane agente segreta che fu. Lorena è per l’occasione filmica la voice over che recita stralci delle pagine di diario e quindi rintraccia nella selezione di montaggio le risposte alle domande che, quando ripresa come personaggio - interlocutore in campo, si pone: "ogni tanto si sente il bisogno di abbandonare parte di sé al passato". Allo stesso modo, mentre si lascia attanagliare dall’inquetudine di non aver mai saputo intravedere alcuna crepa che tradisse il passato segreto della madre, come se per questo non avesse saputo davvero apprezzarla, la confessione "Mamma perchè non ti sono amica?... " da una lettera che Maria Antonietta stessa indirizzò nel 1945 a sua volta alla propria madre, costituisce per chiunque sappia lasciarsi toccare dall’onestà della cifra umana, eredità autentica d’amore e libertà filiale.