Kali van der Merwe, autrice del documentario Un prezzo per la vita, è un’artista e filmmaker sudafricana. Fotografa originale e talentuosa oltre che scultrice, coniuga l’arte all’impegno sociale portando avanti un cinema di denuncia e indagine. E’ il caso del documentario Iduma Elingopiyo, The Wound That Does Not Bleed – girato nel corso di due anni e uscito nel 1997 – dedicato ai bambini di strada di Città del Capo, e anche della pellicola che andiamo qui a recensire, Un prezzo per la vita, incentrata sulle problematiche relative alla diffusione dei farmaci per curare l’AIDS e l’HIV in Sud Africa. Il film, commissionato da RAI 3 Radio Televisione Italiana e uscito nel 2000, è stato prodotto dalla Zenit Arti Audiovisive, casa di produzione indipendente italiana nata nel 1992 e specializzata appunto in documentari e cortometraggi.
Il senso del documentario è già tutto nel titolo. Da questa indagine, condotta in maniera serrata e diretta senza lasciare spazio alle polemiche e all’autocommiserazione, esce un solo colpevole: il business cinico e fatale che ruota intorno ai medicinali e arricchisce in maniera esorbitante e vergognosa le case farmaceutiche. Queste multinazionali utilizzano leggi sui brevetti internazionali (dettate dal WTO, l’Organizzazione Internazionale per il Commercio) per mantenere altissimi i prezzi dei farmaci e renderli inaccessibili alla maggioranza della popolazione sudafricana. La conseguenza diretta e ovvia di questa dinamica spietata e disumana è una sola: la morte di milioni di persone.
Kali van der Merwe intervista individui diversi per estrazione sociale ed economica, dando spazio alle storie e alle esperienze differenti di adulti e bambini, donne e uomini, bianchi e neri, che hanno una sola cosa in comune: l’aver contratto l’HIV. Le loro condizioni di salute, come è facile immaginare, sono direttamente proporzionali alle loro condizioni economiche. Se Edwin Cameron, giudice della Corte Suprema Sudafricana, bianco e benestante, può continuare a vivere e lavorare grazie alle costose cure che ha ricevuto, lo studente nero Sibusiso Mkhize non può permettersi di curare la meningite da criptococco (una delle patologie più frequenti tra i malati di AIDS), che per lui si rivelerà mortale. Sono le parole dello stesso Cameron a fare luce sull’assurdità della situazione: “Tre anni dopo essermi ammalato gravemente di AIDS sto vivendo una vita normale. Se non fosse per quei farmaci salvavita però a quest’ora non sarei qui. Non costa molto produrre quelle medicine, si spende poco per fabbricarle. Ma le case farmaceutiche tengono i prezzi alti e impediscono ai paesi poveri di produrle a basso costo applicando il sistema del brevetto e del permesso internazionale per soffocare ogni tentativo di produzione a costi più bassi. Io sono la personificazione di tutte queste terribili ingiustizie, perché sono vivo, qui, oggi, mentre venticinque milioni di africani si stanno ammalando, stanno per morire o sono già morti di AIDS. Trovo che questa sia un’ingiustizia mostruosa.”
Raccontando anche i tabù che tuttora in Sud Africa (ma non solo) gravano sull’argomento, il documentario ricorda e sottolinea che l’AIDS può essere in parte curato, perché sebbene le persone malate non possono guarire potrebbero tuttavia vivere più a lungo e con meno sofferenza di quanto accade ora. Il nodo del problema è unicamente di natura economica e politica.