Era uno dei film più attesi dell’intero festival, Gravity di Alfonso Cuaròn. E le aspettative, è inutile dirlo, non sono state affatto disattese. D’altronde un film d’apertura di questa qualità e portata farebbe la gioia di qualsiasi rassegna, a prescindere che transiti in Concorso o meno: perfetto biglietto da visita di una Mostra che prende il via al meglio ed è pronta a guardare avanti, risoluta e sicura delle proprie potenzialità. Nonostante qualche scetticismo preventivo e fuori luogo sulla selezione dei film e i soliti alambicchi su festival minoritari e maggioritari, con Cannes e soprattutto Toronto che secondo alcuni sarebbero ormai largamente abituati a recitare la parte dei leoni.
E’ in una sala stampa gremita che il film viene presentato a una foltissima schiera di addetti ai lavori, alla presenza del regista Alfonso Cuaròn, del figlio d’arte e co-sceneggiatore Jonàs Cuaròn e degli interpreti George Clooney e Sandra Bullock (oltre che del produttore David Heyman). E’ proprio il regista messicano a porre subito l’accento sull’origine del film: “Ci piaceva l’idea di questi due personaggi reclusi in un ambiente molto ostile nei loro riguardi. I detriti e le avversità sono nello spazio come nella vita ed era interessante giocare su questo punto di contatto. La nostra sfida più grande era focalizzarci sulla psicologia dei personaggi riducendo al minimo sindacale l’aspetto narrativo. Era necessario costruire una suspense che però fosse in grado di toccare temi più alti e che il pubblico fosse emotivamente connesso all’esperienza specifica che i personaggi vivono all’interno del loro viaggio”. Cuaròn parla spesso di azione e reazione come motori scatenati di tutto il suo film, con alla base quel dualismo derivante dal momento in cui un oggetto ne urta un altro scatenando un’aggregazione per via repulsiva e dunque una conseguenza di sicuro esplosiva e più o meno positiva. “Non avevamo la pretesa che le scene nello spazio fossero documentaristiche o rispondenti al vero in ogni minimo dettaglio. Ci interessava piuttosto l’intensità della coreografia, la maniera corretta di portare a termine una performance in modo che risultasse emotivamente coinvolgente per lo spettatore. Certamente è stato difficile capire come le cose funzionino esattamente in assenza di gravità. Lo spazio è il peggior ambiente possibile per fare un film realistico, un vero nemico. Dovevamo liberarci del concetto di peso così come esso è comunemente inteso e quindi tutti i movimenti andavano riconsiderati da zero a seconda di come agivano i personaggi, che sono pienamente immersi nella metafora dello spazio: un gioco al massacro continuo tra vita e vuoto, senso di morte e rinascita”.
Chiamato in causa sulla questione, Cuaròn si sofferma volentieri anche sulle implicazioni metaforiche che il suo film palesemente possiede: “Il valore metaforico del film era in effetti molto importante. Abbiamo un personaggio che è indirizzato verso il vuoto. Entrano in ballo cose come difficoltà e rinascita e naturalmente quest’ultima non può non partire dall’accettazione della morte. Alla fine il personaggio ha bisogno necessariamente di uscire dalla bolla, di rimettere i piedi a terra e tornare a camminare. Il ritorno sulla Terra coincide con la rottura dell’inerzia, ma anche con qualcosa che va ben oltre la sopravvivenza. Da questo punto di vista sì, il film nel finale è connesso all’evoluzione dell’uomo. E’ una grande possibilità per rinascere ma anche una delle più grandi esperienze che un uomo possa realizzare”.
George Clooney, star indiscussa della giornata e del Red Carpet del Lido, risponde col solito humour e la consueta, sottile eleganza alle domande che gli vengono poste direttamente. Sull’ironia da “funny guy” che caratterizza il suo personaggio, l’attore abbozza compiaciuto. “Sono quindici anni che mi vengono proposti ottimi copioni e mi ritengo molto fortunato. Poi è molto difficile fare un buon film da un brutto copione, semmai è più facile il contrario, fare un brutto film da un buon copione”. Più in là nel corso della conferenza Clooney rivela anche di sorvegliare da un satellite di sua proprietà gli orrori perpetrati nella regione sudanese del Darfur: “Ho comprato una spia in un satellite per controllare il Sudan, sapere e vedere le atrocità che si compiono lì. E’ stato un successo, anche se quando ci sono le nuvole occorrono i raggi infrarossi”. Sulla Siria dichiara di non avere una risposta, con fermezza ma buttandola gioiosamente in commedia (“A dire il vero speravo che mi chiedeste cosa ne pensavo del nuovo Batman di Ben Affleck!”). Ed è sorridente anche a proposito del lavoro compiuto con la collega Sandra Bullock: “Sandra e io abbiamo fatto tantissimo yoga insieme e bevuto molta vodka!” (alludendo, nel secondo caso, a uno dei siparietti più divertenti del film).
La Bullock trasuda invece palese coinvolgimento per il lavoro svolto e fatica a trattenere l’entusiasmo in più di un’occasione: “Sono stata fortunata a fare questo film. Mi sono documentata sulle attrezzature e nell’aspetto fisico ho voluto che il mio personaggio fosse molto androgino. Volevo eliminare la femminilità del mio corpo, anche perché il mio personaggio decide di rinunciarci. Mio fratello è amico di un astronauta, mi ha chiamato dallo spazio e mi ha fatto da consulente. Per noi gli astronauti sono miti, invece sono persone normali con una passione straordinaria per la vita e il nostro pianeta, fanno davvero moltissimo”.