Ci sono tanti modi per iniziare la programmazione di un festival. Gravity è senza dubbio uno dei migliori.
Atteso da tempo – le voci sul succoso piano sequenza iniziale di 15 minuti si rincorrono da almeno un anno – il film di Alfonso Cuarón non è quell’odissea solitaria che molti si aspettavano, la deriva di un’astronauta dispersa nello spazio, un cinema che porta al limite le sue capacità narrative flirtando con la sperimentazione. Dal punto di vista narrativo Gravity è anzi molto convenzionale, ma è proprio dalla natura nazionalpopolare della sua costruzione retorica che trae la sua forza, la sua grande capacità d’impatto. Sfruttare il divismo di George Clooney e Sandra Bullock e il classicismo hollywoodiano per alfabetizzare al cinema del futuro.
Quella del rapporto tra cinema e desiderio è una storia vecchia quanto il cinema stesso, impossibile separare l’uno dall’altro, immaginare un cinema che non brami di staccarsi da ogni fisicità materiale per farsi puro sguardo. Come Chronicle si avvicinava a quest’utopica assenza di meccanicità, fingendone la conquista con l’escamotage della macchina da presa mossa con la telecinesi, così l’assenza di gravità e la tecnologia digitale permettono a Cuarón di andare oltre, negare ogni fisicità della ripresa per un cinema che non ha bisogno di stacchi per attraversare la superficie di un casco e farsi soggettiva, per poi riuscire e tornare a viaggiare fluttuando attorno al soggetto. Gravity porta finalmente il cinema al livello della possessione, dello sguardo immateriale che come un fantasma può viaggiare dentro e fuori da un corpo, assorbire la percezione di un soggetto e poi uscire per restituirlo alla composizione dell’inquadratura. Se si deve immaginare il cinema del futuro, quello di dieci, venti, cento anni avanti a noi, è difficile non pensarlo esattamente così, pura immagine in movimento sconnessa da ogni fisico apparecchio di registrazione, uno sguardo-fantasma oltre ogni barriera. E che sia proprio l’estrema conquista tecnologica a permettere un cinema apparentemente immateriale, non può che aumentare il fascino dell’arte stessa.
Tuttavia, contrariamente a quanto si possa immaginare da queste righe, Gravity non è un film formalista, che fa della spettacolarizzazione del talento il suo obiettivo principale. Nonostante esistano pochissimi registi al mondo capaci di riprendere in questo modo l’epopea compiuta dai due astronauti protagonisti del film, Gravity è prima di tutto una storia di formazione, e anche di quelle più classiche. Prendendo spunto dalla sindrome di Kessler – teoria che studia come l’impatto tra detriti alla deriva nello spazio possa causare impatti e altri detriti in una pericolosa reazione a catena – Cuarón trasferisce nello spazio le difficoltà e le sfide che si susseguono nella vita, su tutte quella della morte, metaforizzate dai continui ostacoli incontrati dalla dottoressa Ryan Stone per salvarsi e tornare a casa. Dopo aver perso una figlia per un banale incidente, Ryan vive la sua vita come in uno stallo, un intervallo d’esilio tra il passato e il futuro vissuto con inerzia, senza la capacità di rialzarsi. Sarà la sfida per la sopravvivenza –che raggiunge un’immedesimazione spettatoriale notevole e nient’affatto scontata considerata la lontananza della vicenda per quasi tutti noi – a darle la forza necessaria a metabolizzare il lutto, accettando eventualmente anche la propria morte.
Come nella migliore fantascienza, di cui Gravity è un esempio classicamente esemplare, lo spazio diventa la frontiera del sé, il luogo in cui gli incubi e le ossessioni prendono forma concreta, che sia un alieno mutaforma o un rottame trasformato nel peggiore dei proiettili.