Venezia 72 / Abluka (Frenzy)
Ritratto kafkiano della Turchia contemporanea, il film di Alper è un incubo di paranoia che conferma il talento del regista turco, al netto di un ermetismo eccessivo e uno forte schematismo di fondo.
Land of the Dead di distretti urbani sotto assedio, Romero e Carpenter, Istanbul città fantasma vittima di attentati terroristici mentre nelle periferie cresce la paranoia e il terrore. Lo Stato serra la sua morsa e i quartieri più degradati, al confine con le terre selvagge, diventano prigioni erette da controlli militari. Cosa fa il vicino, tira avanti come può o tra la sua immondizia possiamo trovare frammenti di bombe, scarti di composti chimici, prove di violenza politica? Mentre la città esplode un pezzo alla volta ed elicotteri militari tagliano il cielo, si fa fatica a distinguere ciò che è ancora reale da ciò che ancora non lo è.
Abluka (Frenzy) di Emin Alper è la follia di un paese che sta perdendo sé stesso, schiacciato tra la violenza di un terrorismo invisibile e il ritorno di un Potere feroce e invasivo, inabile a sradicare la minaccia estremista. A cadere in questa morsa sono due fratelli, Kadir e Ahmet, strumenti dello Stato e vittime della paranoia che esso alimenta.
Vertici complementari di un discorso onirico e strettamente simbolico, i due fratelli seguono strade diverse per la stessa pazzia, si contagiano a vicenda spingendosi in una spirale di paranoia senza via di uscita, resa ancora più pericolosa dagli strumenti di violenza che lo Stato stesso ha posto nelle loro mani: Kadir, spia in libertà vigilata con il compito di sondare l’immondizia dei sobborghi più disperati, l’obiettivo è trovare scarti che indichino la produzione di ordigni esplosivi e conseguente attività terroristica; Ahmet, membro di una squadra incaricata di eliminare tutti i cani randagi che infestano le periferie e colline limitrofe, fucile a mano ad ammazzarne uno dopo l’altro senza particolari rimorsi o pensieri. A scandire il tempo soltanto le esplosioni dal centro di Istanbul, deflagrazioni che come terremoti scuotono fisicamente tutto il territorio urbano.
Film malato, ermetico, conturbante fusione di genere e denuncia politica, Abluka è un ritratto della Turchia contemporanea che non lascia adito a dubbi rispetto al clima di tensione e incertezza che si avverte oggi nel paese di Erdogan. Del resto l’insorgere dello Stato Islamico ha portato all’incancrenirsi dei rapporti tra la minoranza curda e il governo centrale, tornati a relazionarsi a colpi di attentati e bombardamenti. Tuttavia quello che interessa ad Alper non è ricostruire le dinamiche dello scontro ma analizzarne le conseguenze socio-culturali. Per questo Abluka lascia fuori campo ogni nome e specifica se non quello della città di Istanbul, per attivare piuttosto una radiografia kafkiana del tessuto psichico della nazione, una messa in scena capace di farsi autentico incubo.
L’atmosfera che ne risulta suscita un angosciato entusiasmo, tuttavia Abluka manifesta anche tanti, troppi, problemi dovuti forse alla mancanza di esperienza, di certo alla volontà di caricare al massimo il film. Ad una prima parte a volte davvero ridondante segue una seconda che alza il tiro della tensione ma confonde anche troppo le acque, eccedendo con un simbolismo criptico che nel suoi spiragli lascia piuttosto intravedere al di sotto un estremo schematismo di fondo. Abluka in questo senso sfiora il film a tesi, perde coerenza interna e si inalbera inutilmente rincorrendo una struttura del doppio tutto sommato superflua, tuttavia a fine visione è impossibile negare la potenza del film, capace di aprire scorci visivi folgoranti, evocare scenari da incubo e soprattutto gestire alla grande gli strumenti del genere. Pur mantenendo i suoi intenti allegorici, se Alper in futuro allenterà la presa sulla struttura per lasciar respirare maggiormente l’autenticità del cinema che la sovrasta, allora sì che ne uscirà un grande regista.