Venezia 72 / A bigger splash
Guadagnino mette in scena il menage a quatre di rock stars in congedo esistenziale con prole, rimettendo allo spettatore se dietro l'angolo si celi tragedia o farsa.
Un tuffo in piscina. Un grande spruzzo o un grande buco nell’acqua ?
Dipende dalla prospettiva da e verso cui si guarda! In un tormentato vortice di umori fluidi di certo qualcosa accade, da definire è cosa. Avviene anche nel film A Bigger Splash , appunto, del regista siciliano Luca Guadagnino che torna a Venezia portando in concorso il (non)remake de La piscine di Jacques Deray , del 1969.
Guadagnino traccia programmaticamente sin dal titolo la distanza poetica e creativa col precedente cinematografico, trovando piuttosto ispirazione nell’omonimo quadro dell’avanguardista contemporaneo David Hockney . Sullo sfondo di un tuffo dal trampolino in primo piano, Hockney piazza una sedia da regista, come su un set, e Guadagnino vi prende posto personalizzando (senza però esimersi dall’ammantare l’estetica di un’aura Rosselliniana) il dramma passionale che si consuma tra quelle eccentriche geometrie di lusso. Storia di tizzoni ancora ardenti sotto la cenere, colti di sorpresa dall’impeto dei venti caldi della natura vulcanica, solo sopita. L’isola di Pantelleria, dunque.
Marianne ( la sodale Tilda Swinton ) e Paul ( Matthias Schoenarthes ) sono una coppia di amanti con una certa differenza di età, leggenda del rock internazionale lei, reportagista lui, godono della bellezza della quiete e del tempo dilatato a contatto con la natura selvatica, lontano dallo stordimento della vita da star sotto e dietro i riflettori. Fanno del silenzio introspettivo ed esteriore la reciproca cura, la prima per recuperare la voce dopo un intervento alle corde vocali, che la rende afona, il secondo per recuperare se stesso, dopo un tentato suicidio che lo ha reso indolente al mondo. Lo sconvolgente ciclone, che sopraggiunge a spazzar via i loro castelli di sabbia, incantevoli quanto insostenibili, è Harry (ragguardevole Ralph Fiennes ) eterno Peter Pan rock, produttore ed ex di Marianne, deciso a riconquistare la sua unica musa. Triangolo apparentemente innocuo, perchè Harry si rivela ben presto solo un giullare vintage alla corte dei due, se non fosse che al seguito, da bravo serpente nell’eden, reca con se una mela del desiderio, l’ancora acerba Penelope ( Dakota Johnson) presunta figlia acquisita da poco. Sfuggente, seducente lolita, insinuerà il tarlo della gelosia e della rabbia proprio là dove in principio persino la serietà sembrava bandita, tra i più inebrianti piaceri del palato e dei sensi, festeggiamenti di paese ed esplorazioni amene. Soprattutto celebrazione di un manifesto musicale generazionale. Rolling Stone. In questo caso si tratta però di macigni che schiacciano gli animi e precipitano nel baratro di un noir; (disper)azione che non solo tocca il fondo, ma lo scava sino alla tragedia ed ancora oltre, sino al grottesco. Ed è a questo punto che il film godibile, pur nella sua algida implosione, confonde e disturba lo spettatore ben disposto, insinuando la frustrazione di un buco nell’acqua, là dove prima poteva palesarsi virtuosismo. Le piccole storie individuali si scontrano con la Storia maiuscola. Pantelleria è sempre frontiera, ferita sanguinante del terzo mondo clandestino in fuga da se stesso, il cui margine di offesa non si limita più alla disumanità delle condizioni di passaggio e alla volubile “accoglienza”, ma ripugna persino l’immaginario collettivo, che ne fa occasionali assassini senza alibi o meglio alibi stessi per assassini ingenui. E Paul, Marianne e Penelope, nella loro avvilente ingenuità lo sono o almeno provano ad esserlo, complici, quando gli si para dinanzi la fortunata beffa, che fa dell’omicidio una farsa.
Evidentemente Guadagnino avrebbe potuto gestire meglio l’effetto perturbante, se tale voleva essere più che sorpresa, mettendo in scena nell’epilogo una davvero stramba concezione dell’arte che redime, nella fattispecie la musica e il culto divistico che l’offusca, che ci trascende e sopravvivere, lasciando tutto alle spalle.
Ora, è a voler parlare di contaminazione dei generi, che si fa davvero delitto!