Venezia 72 / Everest
Un blockbuster ad alta quota che a prova a inseguire la lezione del cinema catastrofico vecchio stile, ma fatica a centrare il cuore della sfida che racconta.
Sono film che parlano di rapporto con lo spazio (o meglio: con uno spazio), i titoli che hanno avuto l’onore e l’onere di aprire le ultime tre edizioni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Lo fanno in maniera diversa, ognuno a modo suo, ma paiono inseguire lo stesso approdo e il medesimo punto d’arrivo, nel tentativo di spingersi un po’ più in là del già noto e del già saputo: Se Gravity provvedeva a ridefinire in maniera pressoché definitiva il modo di filmare lo spazio (quello vero), alzando l’asticella delle possibilità del cinema contemporaneo e delle tre dimensioni e rendendo la macchina da presa un corpo senza peso, libero e disincarnato, allo stesso modo Birdman, pur senza 3D, si appropriava del teatro facendone il proprio luogo d’elezione da reinventare e da forzare, un territorio nel quale lasciare che lo sguardo dello spettatore fluttuasse, seguendo un moto incessante e privo di punteggiatura (almeno in apparenza). Anche Everest del regista islandese Baltasar Kormákur prova a inserirsi nella selva già affollata del disaster movie con le sembianze da blockbuster cercando di non rintanarsi nelle medesimi soluzioni e scorciatoie di un cinema già codificato, cosa che però, a differenza dei due predecessori, gli riesce purtroppo solo in parte.
Il film ricostruisce la tragica spedizione del 1996,in cui una bufera improvvisa e letale prese alla sprovvista un gruppo di alpinisti, alcuni dei quali persero la vita in seguito a tale tragica fatalità. Tra di loro anche Jon Krakauer, che raccontò la vicenda nel suo libro autobiografico Aria sottile, uno dei tanti lavori eccezionali di uno scrittore in grado come pochi altri di raccontare le terre selvagge e il loro coacervo di orrore e passione, un testo dal quale il film è tratto ma del quale, al contempo, restituisce ben poco lo spirito. Girando tra l’Himalaya e le Dolomiti, Kormákur, tentando la carta della non omologazione cui si accennava sopra, dirige un’operazione che sembra un kolossal ma che in realtà, a detta degli autori, ha ragione di rivendicare una dimensione più artigianale, dato il tentativo di girare il più possibile in condizioni di realismo estremo, stremando al massimo le condizioni fisiche degli attori e riducendo al mimino sindacale l’utilizzo della computer graphic e degli effetti visivi, limitati giusto ai segmenti più avventati e spettacolari. Un’istanza di tradizionalismo da film catastrofico vecchio stile che insegue opportunatamente il fascino di certo cinema degli anni ’70, ma che allo stesso tempo non manca di farsi scudo dei difetti di tanto cinema contemporaneo, specialmente per quel che concerne le grosse produzioni analoghe: enfasi spettacolare forzata e tirata via, personaggi piuttosto bidimensionali che faticano a ritagliarsi una dose consistente di spessore, sequenze programmatiche nell’inseguire una tensione tanto prevedibile quanto esteticamente poco ricercata, semplici inquadrature di raccordo elevate a momenti topici.
Davanti a Everest si fa abbastanza fatica a empatizzare con gli eventi narrati, l’elettricità della sfida uomo-natura solletica ben poco l’interesse dello spettatore e il film si limita scorrere via senza guizzi, restituendo un’orizzontalità, a livello di toni e di ritmi, che confligge non poco con quella che dovrebbe risultare una sfida prima di tutto verticale, per ovvie ragioni, oltre che titanica, incendiaria dal punto di vista della suspense e tirannica per quel che riguarda il rapporto dell’attore col corpo del proprio personaggio. Nel film di Kormákur, che lavora in maniera discreta sull’attesa e sulla stasi temporale ma cui manca quasi del tutto un apice che possa dirsi davvero tale, non c’è invece nessun momento di rottura, nessuna impennata, nessun campo controcampo in grado di radicalizzare il conflitto tra essere umano e ambiente alla base del film e di portarlo realmente al centro degli eventi e nel cuore dell’azione. Everest si riduce così alla confezione manierata e godibile, a un intrattenimento tanto sano quanto pigro, a un approccio al cinema di genere i cui contorni fanno fatica ad assumere una consistenza definita, oscillando tra deviazioni mélo, qua e là perfino incontrollate, e un’asciuttezza che rimane confinata alle intenzioni e non si concretizza mai. Rispetto a Gravity e a Birdman lo spazio continua ad esserci, ma smette di essere protagonista, di farsi palcoscenico e soprattutto ribalta principale, normalizzato e depotenziato da un occhio che non sa farsi sguardo, schiacciato sotto il peso di una montagna probabilmente troppo difficile da scalare.