Animali notturni
Tra disumanizzazione e violenza bestiale il racconto nel racconto di Ford è un elogio ambiguo ma di innegabile potenza alla debolezza e al dolore della perdita.
Nel mondo asfittico e gelidamente simmetrico imbastito da Tom Ford sembra che non ci sia alternativa per preda e cacciatore all’inversione dei reciproci ruoli, nessuna fuga da un destino che trasforma la vittima in carnefice e viceversa. Animali notturni è un racconto nel racconto che intrappola i propri protagonisti, legandoli ad un percorso di vendetta e sconfitta che rischia seriamente di confondere la catarsi per la rivalsa, il superamento del lutto per la necessità di riflettere su altri il proprio dolore.
La mise en abyme che fa da motore al film (e al libro di Austin Wright) è un’affascinante rappresentazione della sofferenza e della necessità di affrontare la perdita, tuttavia nelle mani di Ford questa storia si tinge di una crudeltà che davvero guasta il prodotto finale, una traccia sotterranea che emerge in pochi ma cruciali momenti – su tutti la lunga e spietata scena di chiusura. E a pagare le conseguente di quest’astio mal nascosto è soprattutto il personaggio di Susan (Amy Adams), protagonista teorica a cui di fatto Ford nega il film e ogni punto di vista, preferendo concentrarsi in assenza sul personaggio dell’invisibile ex marito Edward (Jake Gyllenhaal).
Di conseguenza Susan trova spazio nel racconto solo come epitome corrotta e perduta di quel mondo vacuo e disumanizzato che vive nei canyon dell’arte contemporanea, meccanismo cinico che mal nasconde la bestialità delle creature che abitano la notte dell’anima. Animali notturni mette in scena la scissione tra questi due mondi, la violenza e il distacco superficiale come due facce della stessa disumanizzazione, ma a differenza del postmoderno di Ellis il materiale su cui lavora Ford offre ancora, nonostante tutto, una sua umanità, un carico di dolore devastante che il film gestisce sì con forte ambiguità ma innegabile potenza.
Esclusa dal racconto filmico, trattata come un’estranea poco gradita e parte ormai integrante di quel mondo disconnesso mai voluto dall’ex marito (e accarezzato da Ford con una sequenza d’apertura furbesca e fintamente moralista), Susan lascia come detto il campo all’invisibile Edward, che vediamo soltanto nei ricordi di lei e nella proiezione che questa ne fa all’interno del romanzo che sta leggendo, la storia nella storia con la quale Edward ha gettato nell’abisso tutto il dolore causato dalla fine del loro matrimonio.
Il film nel film diventa quindi un thriller dalla messa in scena formidabile, una lunga sequenza-incubo in un deserto notturno con la quale Ford riesce a trasmettere una sofferenza e frustrazione quasi intollerabile. Chissà come sarebbe un approdo nel genere con altrettanta violenza e meno invadenza simbolica. Nel frattempo il racconto nel racconto diventa non solo un tour de force da puro thriller di enorme impatto, ma meglio ancora una resa a braccia aperte che lo scrittore/marito Edward fa alla propria indelebile debolezza. Al netto di un simbolismo rozzo, di una struttura deterministica e iniqua nei confronti dei suoi personaggi, Animali notturni si rivela un toccante elogio della debolezza, la parabola autodistruttiva di un uomo che ammette nel modo più chiaro possibile non solo il suo dolore ma l’incapacità sentimentale di gestirlo, contenerlo, metabolizzarlo in una maggior durezza di spirito. Il doppio personaggio interpretato da Jake Gyllenhaal vive una resa totale alla sconfitta che molto significa se consideriamo la tassonomia del mondo contemporaneo che circonda i protagonisti.
Tra violenza e mercificazione, Edward/Tom diventa l’emblema vivente della possibilità e necessità di tornare a soffrire, di ritagliarsi uno spazio nel mondo attraverso anzitutto la propria emotività ferita. Che Ford contamini poi questo sentire nel terreno della più semplice vendetta è allora il peccato più grande di un film contraddittorio, ricco di limiti e di fascino, carico di dolore e di un rancore forse impossibile da cancellare.