Venezia 72 / L'attesa
Il film d'esordio di Piero Messina è un'opera acerba e pretenziosa, che sembra voler rileggere l'estetismo di Paolo Sorrentino in chiave austera e rigorosa.
E’ praticamente un ufo, L’attesa di Piero Messina , primo italiano a passare in Concorso nella 72° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Un film astratto ed etereo, che lavora sulla diluizione dei tempi e su delle inquadrature volutamente allungate all’inverosimile, nel tentativo di suggerire un mistero, un rompicapo inespresso dietro ogni immagine. L’estetica di Messina, esordiente assoluto nel lungometraggio e già assistente alla regia di Paolo Sorrentino per This Must Be the Place e La grande bellezza, non riesce però a convincere, risultando quasi sempre manierista ed involuta. Lo sguardo del regista, per quanto ricercato e già estremamente consapevole delle proprie possibilità, è infatti confinato a un bozzolo di buone intenzioni non in grado di concretizzarsi e di approdare a una metamorfosi fruttuosa, ancorato a una strana commistione di autorialità rigorosa, calibrata e ostica, e di immagini ad alto tasso di coinvolgimento sensoriale, che rimandano proprio al cinema di Sorrentino e alla sua alternanza di alto e basso, di momenti ad effetto e movimenti di macchina che s’accompagnano alla colonna sonora per creare delle vere e proprie coreografie. Tra languore estetizzante e una vocazione più scarna, nel caso di Messina, che tradisce il proprio maestro e insieme lo celebra, ottusamente e meccanicamente.
Basterebbe già il prologo a certificare ciò, un avvio diviso in tre piccoli blocchi visivi differenti all’interno dei quali Messina provvede fin da subito a chiarire il suo approccio: una raffigurazione del sacro che insegua il “profano”, vale a dire l’immagine esteticamente ridondante e l’aggressione alla percezione dello spettatore, il quale si ritrova puntualmente sballottato all’interno di un flusso di suggestioni intangibile e difficilmente catalogabile, che sembra non somigliare a nient’altro di già visto ma che allo stesso tempo respinge e tiene a debita distanza. Perché L’attesa, storia impalpabile di una madre e di una fidanzata che sperano invano nella materializzazione e nel ritorno del figlio di lui e e del fidanzato di lei, due entità che coincidono ovviamente con la stessa persona, pare avere delle ambizioni non supportate da spalle adeguatamente forti, e si lascia tramortire dalle proprie stesse velleità fuori misura. Il film di Messina è infatti più pretestuoso che evocativo, più amorfo che formalmente radicale, inanella scene il cui risultato finale non corrisponde mai alla somma degli ingredienti e lascia che questi ultimi vengano sovrapposti e ammucchiati gli uni sugli altri confondendo il commensale e lasciando addosso allo spettatore l’amaro in bocca di un film che dice e non dice, che lascia intuire qualcosa di grande e di indicibile ma puntualmente lo nega, programmaticamente incapace di dar voce ai concetti profondi cui vorrebbe concedere asilo.
Dovrebbe parlare di distanze incolmabili, il film di Messina: così pare essere stato concepito, e in questa direzione pare andare anche la sceneggiatura, che è comunque fin troppo fragile e non pervenuta per essere stata scritta addirittura a otto mani. Ogni personaggio è infatti prigioniero del proprio scheletro inespresso e disarticolato, rannicchiato in un’aura di distanza da sé stesso e dagli altri attori della vicenda, tanto che l’unica cosa che pare unire i due personaggi principali del film è proprio una tensione comune verso l’apparizione auspicata di un personaggio che funge da vero e proprio Godot, da motore narrativo invisibile, collocato chissà dove, messo lì a significare chissà cosa. Una cornice a conti fatti intellettualistica, priva di reali motivazioni e destinata a franare su stessa, che servirà forse all’autore per giustificare i propri intenti a posteriori ma non certo a sollevare i film dai suoi difetti endemici. Per tacere del finale che, tra simbolismi elementari come la processione e lo specchio, riesce perfino a gettare al vento il fascino dei propri stessi archetipi, con inquadrature simmetriche molto belle vanificate a un paio di sequenze di distanza da passaggi a dir poco imbarazzanti, grossolani e fastidiosi, oltretutto conditi da una musica in levare insopportabile; un aspetto che il film di Messina, ermetico fino al repellente, condivide anche con un altro dimenticabile film del concorso di Venezia 72, ovvero Equals di Drake Doremus. Neanche la Binoche, alle prese con innumerevoli primi piani (immagini-affezioni, direbbe qualcuno), concentrati tutti sul suo volto piangente e splendente, riesce a portare in salvo il film verso lidi sicuri, abbandonandolo piuttosto a una sorte tutt’altro che positiva e lusinghiera.