Venezia 72 / Rabin, the Last Day
Come un mantra ossessivo, l'immagine dell'omicidio del primo ministro Rabin attraversa il nuovo, imprescindibile film di Amos Gitai.
L’immagine shock dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin è il mantra ossessivo del nuovo film di Amos Gitai, non propriamente il centro, ma il suo vortice abissale, il polo attrattivo, la sua spirale obliqua e magnetica. Tre pallottole segnano uno spartiacque storico per Israele, l’istante drammatico in cui tutto, inevitabilmente, sarebbe cambiato. Rabin, the Last Day non è, del resto, un film sulla morte di Rabin, ma una proiezione oscura sul presente israeliano, un’opera che scivola liquidamente tra la bassa definizione dei materiali di repertorio e il respiro dell’atto cinematografico, (con)fondendoli tra loro. Emerge la danza macabra di un reale slittato di campo, sviscerato, digitalmente imploso in un puzzle apocalittico.
Come Francofonia di Alexander Sokurov, con cui presenta più di un’analogia, Rabin mette in scena il farsi cinema della Storia, il liquefarsi delle strutture storico/narrative, il dissolversi dei tempi nello sguardo: l’immagine è esegesi del reale, motore del mondo, soggetto/oggetto alla ricerca di senso, traiettoria, fine. La cornice è sempre quella della grotta in cui scavare (Israele, la sua cultura, la sua Storia), il passato è il centro dell’immagine (le estenuanti, ossessive udienze della Commissione Shamgar), il presente ai margini (l’inquadratura finale), il futuro, infine, è fuoricampo (l’oggetto filmico finito sottoposto all’interpretazione dello spettatore). Se la geografia di Sokurov è la mente del Louvre, quella di Gitai è la costellazione stessa di suoni, immagini, volti e parole reiterate in un montaggio che ruota, gira intorno, centra e decentra i suoi fantasmi. Del resto Rabin e Francofonia sono entrambe opere dalla struttura rizomatica, varchi cinematografici che, attraverso sequenze che sono organi, altri corpi critici, tentano inedite ontologie del reale, nuovi viaggi mnemonici.
E’ come se il gesto filmico di Gitai implodesse all’interno di una serie infinita di interni. Il film si arricchisce di primi e primissimi piani, assume l’aspetto dell’inchiesta, per poi essere spezzato dal piano-sequenza, come se ci fosse sempre dell’altro impossibile da fermare, tracciare, isolare. Sembra quasi che Gitai sia ansioso di filmare ogni plus, ogni eccedenza, ogni resto (o scarto) possibile, e percepisca questo bisogno come una vera e propria questione di morale.
Dopo Tsili, spaventoso olocausto fuori-campo di un popolo, l’autore porta a compimento quell’indagine sul suo paese e, ancora di più, sul suo stesso cinema. E’ un film d’arrivo, questo, dove Gitai deve, necessariamente, andare alla ricerca di altri occhi, altre testimonianze, altri punti di vista che possano aumentare il carico esperienziale della sua visione. Nelle immagini, tra le immagini, dentro le immagini, bisogna scorgere, trovare, intercettare i movimenti della Storia. E l’approccio di Gitai non era mai stato così metodologico, così scientifico, così causticamente, dolentemente chiaro.
Il passato si affaccia sempre sul presente, lo foggia, lo interpreta, lo modella, facendo dipanare le immagini, concedendo al cinema la possibilità di una radiografia nazionale. Non si tratta solo di ricostruire gli eventi che causarono e seguirono la morte di Rabin, ma di gettare una luce disincantata sui tagli, le ellissi, i buchi neri della Storia. Inscenare il fuoricampo delle immagini, rivelandone anche gli elementi più grotteschi (la donna che tentando una perizia psicologica di Rabin lo classifica come schizofrenico). Del resto, è Gitai stesso ad affermare come Rabin sia il buco nero del suo film: protagonista assente, epicentro dislocato della narrazione (vediamo il suo volto, nei materiali di repertorio, solo dopo due ore di film), grande assente delle immagini che lo riguardano. Trattamento speculare è riservato al suo assassino: il film non è interessato all’uomo che uccise Rabin, perché egli non è altro che il fucile, lo strumento mosso dall’altro (dall’alto), la comparsa fanatica all’interno di un pensiero molto più complesso (emblematico, da questo punto di vista, il fermo-immagine in cui punta la pistola contro di noi: egli è l’uomo-fucile messo in scena, il corpo esposto mediaticamente, la marionetta diretta, manovrata, da una regia sotterranea, quasi un corpo cinematografico). Sgusciamo, allora, nell’humus culturale, politico e religioso di un intero paese, avanzando tra testimonianze, parole, volti che possano aiutarci a comprendere le cause di quella che, prima di tutto, è una morte nazionale.
Gitai architetta un metodo d’indagine che fa dell’immagine un oggetto critico, destabilizzante, fondativo: è la sua unica arma politica, il suo gesto estremo, etico, con cui continuare oggi a realizzare film. Assegna al cinema il compito più alto, quello di processare, lavorare, sviscerare mondo e Storia, fede e ideologia, cultura e costumi. Le immagini sembrano rispondergli ed è allora che la detection (e tutti i crismi del thriller giudiziario) diviene la nuova, inquietante base ontologica del reale.