Speciale MUBI / Racconti immorali
Walerian Borowczyk è su MUBI con "Racconti immorali" e "La bestia": ora o mai più, è il momento di canonizzarlo.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Stiamo al gioco: parliamo di erotismo polacco.
Nelle stesse settimane hanno debuttato in streaming 365 giorni da un parte e Racconti immorali di Walerian Borwczyk dall'altra. Il primo via Netflix, il cui impeccabile macchinario dell'attenzione ha avuto gioco facile nel trasformare la solita miseranda proposta nel fulcro del dibattito su stati presenti e futuri dell'audiovisivo; il secondo via MUBI, che di soppiatto ha reintrodotto Boro nelle diete cinefile attraverso il pacchetto di partenza della sua nuova sezione Videoteca.
Il solito istinto di conservazione passatista direbbe di liquidare il filmetto rosa del 2020, per rifugiarsi nel plauso acritico al maestro lontano; istinto innato, ma disonesto. Incassi e views potranno anche dare ragione a 365 Giorni e 50 Sfumature (smentendo la vulgata sulla moderna perdita di senso commerciale del softcore) ma su un piano critico, culturale ed espressivo l'erotismo cinematografico è un rimosso storico che prescinde dalla “qualità”.
L'indistricabile meccanismo di fruizione-derisione che caratterizza questi esempi moderni (milioni di persone fiondatesi avide sul loro schermo casalingo, salvo poi schernirsi e minimizzare) è forse conseguenza diretta di una cultura filmica che ha da tempo rinunciato a digerire la presenza di artisti come Borowczyk nel proprio canone. 365 Giorni, il film come la sua avvilente ricezione, non è figlio del polacco: semmai, ne è l'orfano. Trent'anni di cinema de-borowczykato ci hanno portato a questo.
Si tende a parlare del passato in toni paternalistici (“per i tempi...”), quando è vero il contrario: i limiti del rappresentabile si saranno pure allargati ( non è vero neanche questo) ma la capacità di confrontarsi dialetticamente con la messa in scena dell'eros non fa più parte della nostra cultura. I Racconti immorali non sono “scandalosi per i tempi”: sono più importanti che mai, qui e ora. Altrimenti, come saremmo arrivati a 365 giorni? E addirittura a temerlo?
«Walt Disney è il vero pornografo!», tuona Boro nel documentario Love Express, con tenero slancio anti-sistema d'altri tempi. Il più classicista, erudito e intellettuale degli pseudo-pornografi si manifesta oggi nel tornado dello streaming non come curiosità d'annata, ma come avanguardia. E poteva farlo solo con MUBI che, mentre le sale esalano l'ultimo respiro, ha compiuto il passo decisivo in direzione dei format mainstream avversari, aprendo finalmente la propria library e tentando la scalata al cielo dopo oltre un decennio di ultra-nicchia.
La storia critica di Borowczyk scandisce la de-erotizzazione dell'immaginario occidentale. Partito dai capolavori dell'avant-garde animata tra i '50 e '60 (l'abnorme box Camera Obscura li raccoglie tutti), approdato al liveaction con l'incredibile Goto (1968, presente nella versione americana del portale) e l'elegante Blanche (1971), con Racconti immorali del 1973 il regista fece terra bruciata (o quasi) di tutto quanto prodotto prima. Inconcepibile per gli standard moderni, ma i circoli arthouse innamorati del suo Teatro di Monsieur & Madame Kabal o Les Jeux des Anges accettarono di buon grado la conversione alla letteratura libertina, a De Sade e Diderot, Justine, Fanny Hill, Therese Philosophe. Rispetto al fuoco e fiamme che solamente due anni prima ebbero a subire film tutto sommato più pudichi come I diavoli e Ultimo tango, il film non incontrò tentativi di autodafé: il pubblico europeo lo aveva capito, e gli era venuto incontro.
Fa quasi impressione ricordare oggi come la rappresentazione del sesso (non dell'amore, non del matrimonio, del sesso letterale) abbia goduto di quella considerazione critica che le quotes esaltate di Moravia e De Mandiargues, capeggianti sulle vecchie locandine del film, ancora testimoniano.
Certo, quello nei confronti dei quattro Racconti (più un quinto, in seguito tagliato e rimontato come lungo) era un apprezzamento quantomeno sospettoso: siamo in fondo lontani mille chilometri, per dire, dal vitalismo utopico della Trilogia della Vita pasoliniana cui il film fu inizialmente associato. Niente teoria, niente politica, al netto del bonario sberleffo alle istituzioni borghesi e cattoliche: a guidare la messa in scena delle fantasie in Borowczyk è solo il puro, incontenibile gusto di farlo. Senza alcun dogma rispetto; un balletto che tira in mezzo i santini dell'intellighenzia critica francese (fin dal titolo il film richiama ironicamente i Racconti morali di Eric Rohmer, collegamento sancito dal coinvolgimento diretto di Anatole Dauman ed elaborato in parodia diretta nell'episodio di apertura), che indulge nel satanismo surrealista post-Sade e post-Anger (nel racconto dedicato ad Erzébeth Bathory, tratto da Valentine Penrose) e celebra gioioso le orge incestuose e papaline dei Borgia (nell'episodio conclusivo) mettendo al rogo il piagnucoloso Savonarola.
Ma che ruolo poteva avere un cinema così, all'infuori del decennio post-sessantottesco ubriaco di détournement e destrutturazioni? Nessuno. Basti vedere la maniera in cui il nome di Borowczyk arrivò in America a metà anni '80, al traino di un disconosciuto contributo alla saga di Emmanuelle: VHS accompagnati da frasi di lancio ammiccanti («You don't have to go to the museum to see an X-Rated Picasso!» riferito a Paloma); Racconti immorali, Storia di un peccato, Interno di un convento presentati come puttanate decerebrate e pruriginose, exploitation a metà tra mondo movies e Ilsa la Belva delle SS.
Come distinguere i più recenti, sempre più folli e dissacranti teatri della devianza (Nel profondo del delirio, 1981; La regina della notte, 1984) dal porno-chic di un Gerard Damiano? Per i successivi tre decenni Boro viene dato artisticamente per morto: un altro di quella genia di registi “traditori”, che rinnegarono un percorso autoriale “alto” per il softcore sullo slancio delle rivoluzioni sessuali di cui più o meno per caso si fecero alfieri. Borowczyk, Brass, Meyer: una faccia, una razza. Roba da recuperare nel buio di casa propria, in televisione, con le tende tirate. Lo stesso atteggiamento, in breve, che ancora oggi attrae e repelle il pubblico dei chick-flick Netflix.
Il cinema di Borowczyk non è figlio del suo tempo. Non c'è contestualizzazione meta-surreal-marxista che possa inchiodarlo in una griglia. La sua riscoperta, come sempre avviene, è arrivata con internet e la pirateria, celebrata dai numerosi documentari recenti dedicati alla sua figura (oltre al succitato Love Express, anche Obscure Pleasures, ricco di contributi di star ammirate).
Ora siamo all'alba, volenti o nolenti, di un'altra maniera di diffondere l'audiovisivo (e dunque di produrlo). Se la dipendenza dalla distribuzione nelle sale non esiste più, possiamo approcciarci senza remore a quelle forme di cinema che da queste erano state bandite. E film come i Racconti immorali sono la Stele di Rosetta di un linguaggio che va recuperato, studiato, riscritto e reintrodotto a forza nel cinema contemporaneo. Genere e sessualità sono al centro di ogni discorso sul presente: non se ne può lasciare la rappresentazione a una cinematografia puritana, incapace di tollerare il corpo e immaginarne nuovi desideri.
Il capolavoro dei capolavori del regista, in fondo, è proprio il quinto Racconto, quello tagliato e reincarnatosi come lungometraggio l'anno dopo: i venti minuti centrali di La bestia, pantomima zoofila capace di sfondare ogni barriera di sguardo, di fantasia e di messa in scena. Il 2001 dell'erotismo cinematografico, presente anch'esso su MUBI.
Difficile trovare uno spazio a questo cinema nelle sale del 2020. Qualcuno ci prova, come Kechiche, ma con tutto il bene del mondo non ha la faccia tosta. Molto più bravo Alain Guiraudie, ma in quanti lo seguono? Quel surrealismo sarcastico, la tassonomia cinica delle animalità umane si ritrova in Lanthimos: ricompaiono grandangoli, feticismi e profondità di campo pittoriche, ma al greco manca il sangue. I grandi nomi internazionali normalmente associati alla rappresentazione del desiderio (Sciamma, Guadagnino) fanno le capriole pur di non metterlo in scena. Il più diretto erede di questo modello è quasi sicuramente Bertrand Mandico, autentico filologo borowczykiano (vedasi Boro in The Box, 2011), al momento relegato al cult di pochissimi. Uno che le sale non le vedrà mai e poi mai. Ma i suoi corti sono in streaming; su MUBI, anche loro.
E' troppo presto per eleggere l'on demand a terreno di nascita di nuova cinematografia, che ridia fiato a simili visioni sottraendosi al kinkshaming pettegolo che (giustamente) fa a pezzi i 365 Giorni di questo mondo. Lo “streaming di nicchia” non esiste più: muovendosi verso il mainstream, le piattaforme incontreranno inevitabilmente un pubblico più generalista, col rischio di bastardizzarsi in peggio (un biennio di popolarità basta a trasformare le community di un MUBI o un Letterboxd nella board di IMDB). Ma se la sala è al de profundis e la visione è affare privato, allora questo cinema della devianza può e deve rivivere liberamente nel buio dei salotti, dalle tende chiuse e della fruizione personalizzata. L'ex ghetto del trash, oggi serenamente gentrificato.