Goto, l'isola dell'amore

di Walerian Borowczyk

Animazione di carne, distopia di burattini: MUBI arricchisce il suo catalogo Walerian Borowczyk con il primo capolavoro in live action del regista polacco

Goto recensione film Walerian Borowczyk

Tante isole, tanti microcosmi umani in scala emergeranno nell'arcipelago Walerian Borowczyk a partire dall'esordio in live action e conseguente avvio della seconda, denigrata fase di carriera. Mondi chiusi, case di bambole, fortezze, magioni, appartamenti e continenti perduti: organismi spaziali viventi, incubatrici della multiforme poetica del desiderio del regista. Tutto (ri)parte da Goto, l'isola dell'amore, il film della maturazione o della caduta a seconda dei punti di vista (la maggior parte propende per la seconda opzione, ovviamente sbagliando). Si chiude a cerniera l'epoca polacca-surrealista dell'animazione, segnata dalle illustrazioni di Jan Lenica e le collaborazioni con Chris Marker; si apre ufficialmente il periodo “francese” dell'autore (in realtà arrivato a Parigi intorno al '60), che ne inasprirà gli stilemi classici in maniera forsennata, sconfinando progressivamente nell'irricevibile.
Il suo cinema post-animazione è già tutto presente nel capolavoro del 1968; film di transizione nell'accezione più positiva del termine, dove gli eterei personaggi del Teatro di Mr e Mrs Kabal si fanno ossa, pietra, acqua, prendendo scomposti le misure di un appena scoperto mondo fisico. Un incredibile cartoon di carne, da cui evolverà il classicismo pittorico dei primi anni '70, fino all'impressionismo fotografico degli '80. L'opposto esatto della maniera: con la scoperta della narrazione dei corpi e dell'eros, Borowczyk trova la propria forma espressiva più congeniale, scoperchiando un universo di possibilità cinematografiche.

Goto l'Ile de l'Amour è dunque un vero e proprio ponte tra forme artistiche divergenti: narrativa e sperimentale, animata e recitata, artificiosa e naturalista. Quel cinema d'animazione così radicale, figlio delle avanguardie mitteleuropee di inizio secolo, humus di tante future derive da Švankmajer ai fratelli Quay, deborda fuori le linee deformi del cartoon, si incarna nella realtà del set e fissa il cinema di Borowczyk per quello che sarà nei due decenni successivi. Per la prima volta si affollano davanti all'obbiettivo i proverbiali oggetti, ninnoli, decorazioni e ammennicoli fabbricati a mano dallo stesso autore, eredità dell'autarchia dadaista dei primi anni. Invadono il campo gli amati animali in libertà (soprattutto cavalli), il montaggio delle attrazioni, il voyeurismo in soggettiva di personaggi spiati e spianti dietro lenti, binocoli, fessure.
Ma c'è anche una storia, stavolta, il primo capitolo di quel lungo racconto di passioni che costituirà il tardo corpus del regista; l'intrigo, la farsetta, l'amore e il dramma della città-Stato del titolo. Fortezza-isola dispersa in mezzo all'oceano, tagliata fuori dal mondo da un non meglio specificato cataclisma marino, governata da una dinastia di caricaturali despoti omonimi; nella parodia di regime alla fine dell'umanità, si intersecano le vicende del sovrano Goto III (Pierre Brasseur) e di sua moglie Glossia (Ligia Branice), che sogna la fuga con l'amante Gono (Jean-Pierre Andreani), mentre l'ex galeotto arrivista Grymp (Michelle Charrel) pianifica la scalata.

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Il puntiglioso svisceramento della mentalità egemonica vigente sull'isola pone Goto su un piano relativamente mediano nella filmografia di Borowczyk, portando con sé una valenza politica che via via sfumerà sullo sfondo. Più esplicitamente figlio del suo tempo di quanto non sarà il suo atemporale cinema successivo, si tratta forse dell'unico film veramente “sessantottino” di un autore, anagraficamente e culturalmente, lontano dalle rivoluzioni sessuali giovanili (di cui sarà eletto bandiera più che altro per contingenza). Certo, la sua critica di stampo immoralista al totalitarismo si manifesta più che altro in una sorta di contro-etica libertina; il film si guarda bene dal collocarsi tra i due Blocchi, e se la burocrazia e l'economia controllata dell'Isola rimandano alle politiche sovietiche, il look e retorica di Brasseur (culto della personalità fanatico e venato di tanatofilia, nel grottesco della miseria) rimanda chiaramente al franchismo spagnolo.
Per il resto, è “fantasia al potere”: una rappresentazione scatenata, demiurgica, della pericolante e cenciosa enclave dittatoriale - dispersa in una dimensione retrofuturista da post-atomico feudale (sembra di vedere il giovane Terry Gilliam riempire quaderni di appunti), tra il medioevo feroce e un futuro che, più che uno slancio in qualsivoglia direzione, pare la putrefazione di un presente marcescente. Separata dalla Storia e dall'umanità, l'”Isola dell'amore” preserva il suo legame ideologico con un passato ormai alieno attraverso la ripetizione, il culto dell'oggettistica, il feticismo antistorico della reliquia; la Tradizione è uno scherzo di cattivo gusto, e i suoi protettori una masnada di ridicoli burattini.

Elemento di rottura in questa pantomima è, una volta tanto, l'amore ideale: un amore ancora parzialmente desessualizzato, prima che i due aspetti diventino inscindibili e anzi l'uno manifestazione dell'altro nel cinema successivo dell'autore. Nel suo primo lungo recitato, la Bestia Borowczyk oppone al libertinismo nichilista un'anima romantica nel senso più classico; con la sua letteratura francese, le sonate barocche come personaggi aggiunti (compare per la prima volta Handel, vero co-protagonista), i suoi vecchi orrendi e claudicanti contrapposti ai giovani, stupendi amanti (la moglie e musa Branice, che ne resterà protagonista ideale fino all'era di Marina Pierro), l'autore non può che vedere nell'amour del titolo (ironico o meno?) l'ultima prova di umanità dei suoi eroi. È sempre un dramma di amanti, anche nell'assurdismo soffocante di questo Brazil a lume di candela.
Ma in Goto, l'isola dell'amore, l'eros non si pone ancora come elemento di rottura e rivolta anarcoide sui corpi dei personaggi (corpi capaci di deformarsi, mostrizzarsi, infine trasformarsi grazie all'erotismo – discorso che culminerà in Nel profondo del delirio), quanto in un rapporto dialettico, e dunque votato alla sconfitta, con la macchina-Stato. Un sentimento che la sua stessa purezza destinerà alla tragedia nella farsa lirica del finale. Sempre più cinico e sardonico, Boro metterà presto ogni residuo di platonismo da parte; dopo Blanche e Storia di un peccato, a partire dai Racconti passando per La bestia, Interno di un convento e Tre donne immorali, la sua risposta alle istituzioni non sarà più l'amore tenero e sconfitto, ma l'orgia satanica e sadiana.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 20/02/2021
Francia 1968
Durata: 93 minuti

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