Wenn Aus Dem Himmel... Quando dal cielo
Al suo quarto documentario, Fabrizio Ferraro ritrae con mano invisibile il processo creativo di due importanti jezzisti, per svelare l'inafferabile miracolo della percezione artistica
“Non si tratta di distruggere la rappresentazione. Ma piuttosto, non rappresentare che a metà, eludere la scoria analogica, per lavorare non esattamente sulla rappresentazione, ma sul fatto che vi sia stata una rappresentazione … il fatto che nell’apparato psichico abbia luogo un lavoro tra percezione e immagine interiore (dalla traccia cosciente all’immagine persa) … dove l’immagine si forma sottraendosi.
Si inventa così un’immagine che risponde a questa doppia impossibilità: rappresentare veramente, non rappresentare.”
Raymond. Bellour . Fra le immagini
Al suo quarto lavoro documentario, Fabrizio Ferraro alza la posta del suo testa a testa con lo spettatore individuale, coerentemente col percorso autoriale precedente, prosegue la sfida o la scommessa di superare il trattenimento dell’immagine filmica, quale “traccia cosciente”, composizione significante data, per anteporre, a questa “immagine persa”, l’inafferrabile miracolo della percezione intima.
Movimento arduo ed elegiaco insieme, che Ferraro consacra a sé, con un verso del poeta tedesco Friedrich Hölderlin , Wenn aus dem Himmel … Quando dal cielo… , proprio a sabotare la passività dell’attesa della rivelazione del genio artistico, innalzando la gioia che, per tale prodigio, dal cielo si versa, ad altrettanta proiezione stupefacente. “… Poichè la felicità è immagine”, concludono i versi di Holderlin, ma immagine primigenia, diffusa, sinestetica, che richiede uno sguardo panico dei sensi, allenati al ritmo espanso della vita.
Ferraro, intuisce che questo movimento estatico di vita interiore attraversa in via preferenziale la grazia eterea del genio musicale, e in questo caso l’improvvisazione sperimentale e spirituale del jazz, e sceglie, dunque, di dare consistenza narrativa all’opera, ritraendo (solo) con mano (non con pensiero) invisibile, il processo creativo di due importanti jazzisti, il trombettista Paolo Fresu e il bandoneonista Daniele di Bonaventura, nel loro incontro artistico con lo storico produttore della ECM, Manfred Eicher, ai fini della realizzazione dell’album In Maggiore .
Porsi in ascolto dell’immagine, è l’esortazione dell’istanza narrante, nume tutelare, eco di ispirazione ed estro dello zeitgeist di ogni dove, nonché la dichiarazione programmatica che il regista si auto-ascrive per “suscitare l’immagine attraverso la musica”, scavare e plasmare i linguaggi logopatici universali e pre-verbali per antonomasia, alternando falsamente la priorità d’uno nell’altro, perché in fondo lo stesso Ferraro, non può che giungere all’ammissione di una scelta netta del mezzo, inevitabilmente incontrovertibile, stante la sua natura di cineasta: “In questo movimento continuo e fermo” che è fuga pur “… non spostandosi, ma solo chiudendo gli occhi…” la vista non sarà mai un fuori campo e il testo filmico tenderà sempre alla visione, che paradossalmente proprio nella sala cinematografica è fonte retrostante, luce che illumina di spalle. Alle spalle allora dei protagonisti, a latere e sempre un passo indietro, il regista non arresta, ma al contrario spalanca, una prospettiva fissa nella ripresa, incostante nella sostanza. Lo spettatore coglie frammenti di dialoghi, parvenze di discorsi dosati tra le pause e gli stacchi delle prove strumentali; il produttore, i musicisti e i tecnici, a loro volta sono in ascolto del suono melodico puro, costituendo al contempo figure diegetiche, di volta in volta calate in un mise en abime d’amplificazione, quali sono l’auditorium, che abbraccia la cabina di regia, in seno alla quale è il monitor, che cattura e riproduce l’effetto acustico, sino alla stessa mente degli autori astanti, che divaga tra ricordi e viaggi, estensioni panoramiche paesaggistiche, come frame in slow motion.
Una sorta di sovversione della pratica esecutiva del cinema delle origini: anziché essere l’accompagnamento musicale ad improvvisare partiture ed eseguire canovacci sulle immagini, provare a sviluppare rappresentazioni, che rendano l’estemporaneità dell’originale creazione musicale. È questo “l’altro film”, per restare ancora all’interno delle speculazioni critiche del teorico francese Bellour, : “si tratta piuttosto di far nascere ‘l’altro film’, che il film stesso nasconde, che contiene come un effetto inosservato, atto a definirlo…” ? E non sarà allora forse questo "l’effetto-soggetto", rivelazione della scena psichica, in cui verosimilmente si cimenta Ferraro?. La domanda rivolta al cinema dal film. Il film sotto il film, l’altro dall’altro, il vero nato da questa impossibile ripresa, che rischia di perdersi, anziché giovarsi, dell’ipnotica ossessione segnica. Dalla stasi naturalistica al bianco e nero, funzionale alla mappatura dei riflettori, volta ad emulare un notturno Van Goghiano, a stagliare il musicista tra le stelle, senza però sradicarlo dalla struttura scenica dell’auditorium: platea fantasmale, moltiplicazione di vuoti, con i braccioli delle poltrone a frazionare l’identico. Lo stesso vale per la soggettiva della strada percorsa in auto: serie di luci in galleria, frenesia del bianco tratteggio segnaletico orizzontale sull’asfalto. Ed ancora per la fisionomia urbana: una costellazione di luci restituisce il senso dello spazio percorribile – lampioni, fari di auto, riflessi di specchi.
Ed infine, la dilatazione che dissolve il palcoscenico nel movimento delle onde del mare: “un lavoro che può illuminare senza forme misurabili il nostro vedere”.
Tempo sospeso, contemplativo. È “il tempo che si prende il tempo per trascorrere”. Il tempo come narrazione, è l’anima così perfettamente mobile e statica.
Il tempo che “costruisce l’immagine divorandola.”
“Questo suono che altro è, se non la visione di quell’attesa?”