That Cloud Never Left
Un piccolo villaggio indiano e le pellicole di Bollywood in un racconto teso tra documentarismo e astrazione.
Daspara è un piccolo villaggio indiano dove si costruiscono giocattoli fatti di plastica, creta, canne di bamboo e scarti di vecchie pellicole di Bollywood. La regista Yashaswini Raghunandan parte da qui per fondere assieme in That Cloud Never Left un approccio essenzialmente documentaristico - volto a raccontare una quotidianità semplice se non spartana – e un sentire fortemente lirico, tendente all’astrazione. Da un lato c’è il lavoro, lento, minuzioso, costante e ritmato: tagliare, pestare, tingere, incollare. Dall’altro le pellicole utilizzate come materia prima, che portano con sé tutto uno specifico immaginario – il cinema come sogno, vagheggiamento, fantasticheria – che di tanto in tanto riemerge, come un rimosso-non rimosso, nelle crepe della realtà. Ecco allora un bellissimo volto di donna proiettato su un muro scalcinato, mentre i grilli cantano nella caldissima notte indiana. Ecco l’immenso, calmo specchio d’acqua sempre attraversato dai pescatori che all’improvviso si tinge di rosso, forse visto attraverso un ritaglio di pellicola usata come lente.
Le vecchie pellicole sono soprattutto il pretesto per lasciare il campo alla purezza del colore: viola, gialli, grigi che sfarfallano e pulsano vividi saturando lo schermo, misteriose tracce di passato riconsegnate al presente che lasciano trapelare solo a tratti qualche fotogramma leggibile e poi si fondono dolcemente con le immagini della quotidianità del villaggio (una foresta, un fiume, una barca, gli uomini a lavoro).
Tra questi due poli – lo sguardo documentaristico e il desiderio di astrazione – c’è poi ancora un altro mondo, vero ma tutto intriso di fiaba: un gruppo di bambini, i loro giochi, le parole bisbigliate all’orecchio, la ricerca di un rubino perduto, rosso come un brandello di pellicola, rosso come la luna durante l’eclissi che tutti attendono con trepidazione, nella speranza che le nuvole infine si diradino. Quella di Yashaswini Raghunandan è, finalmente, non un’India metropolitana e ribollente, fatta di caos e sovraffollamento, ma un’India di boschi fitti e spazi aperti, silenzi, piogge, un’India notturna e magica. La natura è imponente, rigogliosa, è il verde che riempie l’inquadratura e suggerisce un fuori campo interminabile e altrettanto verde mentre i bambini, allegri, si arrampicano sugli alberi e si chiedono che fine abbia fatto il loro misterioso rubino: forse è nascosto nei capelli ben pettinati di una ragazzina, oppure nell’orecchio di un’altra compagna dalla voce incantevole, o forse è stato portato via dagli uccelli oppure, chissà, mangiato dalla luna.
Al di là della valenza etnografica che un’opera come questa assume agli occhi del pubblico occidentale, al dì la cioè del suo potenziale di sguardo saldamente ancorato al qui e ora – che pure possiede – That cloud never left affascina per la levità e la dolcezza del linguaggio, per la libertà con cui approcci di segno diverso vengono coniugati assieme dando luogo a un equilibrio espressivo non scontato; perché è un omaggio – simbolico, suggerito, appena sussurrato - al cinema come industria e immaginario espanso (Bollywood) che viene esplicitato, di contro, attraverso un cinema altro, che è invece minimalista, intimo, pieno di grazia.