The Little House
Yamada delinea con pennellate tenui e pudiche la complessa rete di sentimenti dipanatasi dentro una famiglia del Giappone degli anni '30 e '40.
C’è una parola che forse potrebbe raccogliere in sé le tonalità gentili di The Little House. Una parola che però rischia troppo rapidamente di essere fraintesa alla luce di un cinismo imperante che ridicolizza o ancor peggio, banalizza il suo senso profondo. La parola è tenerezza: qualcosa di morbido, soffice, di cui è assai facile sottovalutare la potenza disarmante.
Il film di Yōji Yamada è un film di cose piccole: dalla casa del titolo, adornata da uno sgargiante tetto rosso, alla storia della dolce Taki, ex domestica che poco prima di morire racconta, in una manciata di quaderni, il periodo in cui alla metà degli anni 30 arrivò a Tokyo per lavorare per la famiglia Hirai. Un tempo lontano e molto felice, colmato dalla presenza della padrona di casa, Tokiko, bellissima e sempre sorridente, e dal suo figlioletto Kyoichi, a cui Taki si affeziona tanto da prendersene cura con grande impegno quando si ammala di poliomielite. Un giorno però il signor Hirai, che lavora in un’azienda di giocattoli, porta a casa il giovane Itakura, artista impacciato e sensibile con cui Tokiko allaccia una segreta relazione amorosa. È un sentimento proibito, fatto di parole, gesti e sguardi minimi che vengono notati solo da Taki che tutto vede e tace. Nel 1941 con Pearl Harbour arriva però la guerra a sconvolgere gli animi già scossi dei due amanti e della domestica, la quale solo nei suoi futuri quaderni riuscirà a raccontare quella vicenda, senza però dire veramente tutto.
D’altra parte, è proprio quello che suo nipote le rimprovera: dove sono, nella sua storia, l’oggettività della grande storia, la Seconda guerra sino-giapponese che sarebbe sfociata nella Seconda Guerra Mondiale, la povertà e la miseria del popolo? Eppure Taki può descrivere solo ciò che ha visto, e tutto ciò che ha visto è accaduto in quella piccola casa dal tetto rosso. Yamada restringe, come la sua protagonista, lo sguardo entro i muri della dimora dei signori Hirai, dove azioni e conversazioni semplici contribuiscono quotidianamente a consolidare forti rapporti affettivi, e, laddove è necessario, a significare molto più di ciò che lasciano intendere a prima vista. Taki è la narratrice della storia, e come tale rimane al di fuori dell’inquadratura come voce narrante, o sullo sfondo in secondo piano. Dell’amore fra Tokiko e Itakura sono visibili solo gli sguardi appassionati, abbracci e fugaci strette di mano, e quando finalmente la donna raggiunge lo studente nel suo appartamento non è dato allo spettatore di sapere cosa vi accada: saranno solo i vestiti strapazzati al ritorno a casa a suggerire a Taki - e a noi - che qualcosa di importante è appena successo.
La grande Storia, in The Little House, è solo un discorso fatto in casa durante le cene e gli incontri di lavoro; qualcosa che senza mai palesarsi esplicitamente spegne pian piano gli animi e riduce le razioni di cibo, e infine porta via da Tokyo Itakura, costretto ad arruolarsi nell’esercito. Quando la guerra arriverà, sotto forma di bombardamenti aerei, distruggerà ciò che rimane di materiale e spirituale. Difatti e è proprio in questa casa dove accadono eventi comuni, poco importanti, che pian piano si raccoglie un senso di calore, di umanità sincera che non è solo la storia della bella famiglia Haroi, di una domestica silenziosa e di una segreta storia d’amore, ma sembra definire anche con nostalgia l’emozione della serenità perduta di un popolo piegato dalle guerre e da due bombe atomiche.
Taki racconta ciò che ha visto, ma si nasconde lei stessa alla vista. Quando la sua voce scompare dal film Yamada interviene come narratore ad allacciare i fili della storia del Giappone, del suo popolo, di Itakura e della domestica che forse è sempre stata una ragazza innamorata senza rivelarlo a nessuno. Le grandi emozioni sono facili da raccontare, roboanti e rumorose come sono; ma il talento di far emergere, come un artista che dipinge a pennellate sottilissime, i piccoli moti nascosti dell’animo, ammutoliti dal pudore, è un’altra cosa. Basta un pianto goffo e incontrollabile, trattenuto troppo a lungo: lacrime di nostalgia e rimorso, stratificate negli anni fino a diventare un macigno nell’anima, che commuovono nel senso più autentico della parola.