True Detective (3° stagione)
Il tempo è il fuoco in cui bruciamo
Cosa rimarrà di me e te
A parte le foto e i ricordi?
Questa è la scuola in cui impariamo,
quel tempo è il fuoco in cui bruciamo.
L’ultima puntata della terza stagione di True Detective si apre con una scena apparentemente slegata dalla storia che ci ha tenuti inchiodati fin qui, così come è apparentemente slegata dalla storia la scena finale, su cui torneremo: a scandire il giro di ispezione di Wayne Hays nel campus in cui ha preso servizio, sono i versi di una poesia di Delmore Schwartz, recitati ai suoi studenti dalla voce di Amelia Reardon, che adesso insegna al college.
Siamo quindi in un periodo successivo al 1990, l’anno in cui viene brevemente riaperto il caso Purcell, che il detective Hays aveva seguito con il collega Roland West nel 1980, e antecedente al 2015, quando Hays si presta a farsi intervistare per un documentario sul dramma che trentacinque anni prima aveva sconvolto la comunità della contea di Washington. Ed è l’unico momento in cui Hays (detto Purple fin dai suoi giorni di recog in Vietnam, come l’epocale Purple Haze dell’inconfondibile riff di chitarra di Jimi Hendrix) può abbandonare quell’ombra di ossessione e tormento che lo abbiamo visto indossare con naturalezza finora, mostrando se non il volto della felicità almeno un’espressione di serenità ricomposta, di pace ritrovata. Forse è davvero così, o forse è solo un sogno, un inganno della mente di Hays che ha deciso di venire a patti con se stessa e con il suo passato, dopo avere finalmente raggiunto la verità nascosta dietro un caso irrisolto che per tutti quei trentacinque anni, un giorno dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, non lo ha mai abbandonato.
Siamo tra gli Ozark dell’Arkansas, in una delle regioni più depresse dello stato («È assurdo, vero? Come è morta velocemente questa città?» osserverà nella sesta puntata West. «Non è morta» lo correggerà Hays, «È stata assassinata»). È il 7 novembre del 1980, il giorno della morte di Steve McQueen, quando Will e Julie Purcell, di 12 e 10 anni, svaniscono improvvisamente nel nulla, innescando una ridda di sospetti che, come nella più classica tradizione cinetelevisiva da Peyton Place a Twin Peaks, serve a gettare lo sguardo dietro le quinte della vita apparentemente tranquilla di una comunità di provincia.
Come si confidano a un certo punto Wayne e Amelia, è il caso che li ha fatti incontrare e ha tenuto insieme le loro vite. «C’è sempre stato questo enorme segreto tra di noi. Ed è questo, tu ed io… chi siamo insieme, questo matrimonio, i nostri figli. È tutto tenuto insieme da un bambino morto e una bambina scomparsa», osserva Hays dopo avere incontrato Hoyt, il magnate dell’industria agroalimentare che condiziona la vita politica della zona e l’esercizio stesso della giustizia. I suoi segreti di famiglia finiscono per incombere sul caso nel 1990, al punto da costringerlo a scendere in campo e mettere a tacere i sospetti che si stanno addensando sulla casa, facendo in modo che la polizia affossi nuovamente le indagini. Dopo l’ennesimo insabbiamento, Hays deve confessare ad Amelia qualcosa che difficilmente ci saremmo aspettati da un personaggio così affezionato alla propria idea di sé com’è stato finora: «Vorrei smetterla e andare avanti».
Cosa sono ora che ero anche allora?
I ricordi si rinnovano ancora e ancora.
Il colore più leggero del giorno più breve:
Il tempo è la scuola in cui impariamo,
Il tempo è il fuoco in cui bruciamo.
La poesia di Schwartz letta da Amelia ai suoi ragazzi, Calmly We Walk through This April’s Day, prosegue con questi versi, che echeggiano quelli di Tell Me a Story di Robert Penn Warren, che Amelia leggeva ai compagni di scuola di Will Purcell nella prima puntata e che Hays ricorda proprio nel momento cruciale del finale di stagione, con un’epifania che gli schiude l’accesso alla verità:
Raccontami una storia.
Fanne una storia di grandi distanze e di chiarore stellare.
Il nome della storia sarà Tempo,
ma non devi pronunciare il suo nome.
Raccontami una storia di profondo piacere.
Nella terza puntata, mentre setacciavano i dintorni del parco in cui erano stati visti giocare per l’ultima volta Will e Julie, Amelia aveva spiegato ad Hays che «siamo nel tempo e del tempo, ma pronunciare il suo nome… quando lo nomini, ti separi da qualcosa. E credo che voglia dire che siamo imprescindibili dal tempo».
Finché si è calati nella storia, suggerisce Nic Pizzolatto, che con questa dimostra di essersi lasciato alle spalle i postumi della seconda stagione tornando ad avvicinarsi alle vette della prima, si è una cosa sola con essa e non c’è distinzione tra vittime e carnefici, tra scomparsi e rapitori, tra inseguitori e investigatori; si è tutti parte dello spettacolo e in quanto attori in scena possiamo solo coglierne una prospettiva parziale, necessariamente limitata, distorta. «… le considerazioni che ti fa fare questo lavoro sono terribili. […] Ma queste sono solo congetture, che conducono a quelle che definiamo proiezioni. Distorcono ciò che vedi e offuscano la verità» spiega Hays alla giornalista che lo sta intervistando nel sesto episodio.
Bisogna scendere dal palco per poter avere una visione completa. Ma questo significa non fare più parte dello spettacolo, un po’ come il Wayne Hays del 2015, invecchiato, afflitto dai sintomi dell’Alzheimer, braccato dai fantasmi del passato (le sue vittime, sua moglie…) da cui non riesce in nessun modo a liberarsi. La memoria è il filo che tiene insieme gli ultimi pezzi della sua identità e li unisce all’ossessione per quel vecchio caso che ancora lo perseguita. Anzi, non sembra esagerato dire che è proprio quell’ossessione, quell’idea fissa, quel pensiero totalizzante, a tenere insieme i frammenti della sua personalità ancora adesso, a fare di lui la persona che è.
True Detective mette così da parte gli elementi weird che pure aveva disseminato nelle prime puntate (le foreste di Leng, le bambole di paglia), che non a caso suggerivano una connessione proprio con le indagini di Rustin Cohle e Marty Hart raccontate nella prima indimenticabile stagione (Carcosa, il Re Giallo, le spirali spezzate) e riconduce in una dimensione terrena, rurale e fin troppo realistica l’eterno scontro tra razionale e irrazionale, con l’irruzione improvvisa del caos nella quotidianità di West Finger, un posto come tanti altri nel profondo cuore di tenebra dell’America e dell’Occidente.
La memoria è il tema centrale di questa stagione e il tempo è il nemico contro cui lottano i protagonisti. Il tempo che stringe vanificando la corsa, il tempo che stinge i particolari rendendo sempre più difficile la scoperta della verità. «È sempre troppo tardi» dice Hays a Junius, l’inserviente della famiglia Hoyt che finalmente aiuta lui e West a far luce sulla sparizione di Julie. «E se la fine non fosse affatto la fine?» domanda il fantasma di Amelia manifestandosi nella casa infestata che ormai è la testa del vecchio Hays, insistendo poi sul punto: «Questa vita, questa perdita… e se fosse solo una lunga storia che prosegue all’infinito, fino a risolversi da sola?» Una storia che non può essere racchiusa in ciò che manca (la soluzione tanto attesa), ma che comprende necessariamente tutto il resto (i drammi familiari, i conflitti sociali, l’amicizia, il lavoro, le passioni, le delusioni), che tutto insieme va a comporre il quadro più grande delle nostre vite. Ma a cui quell’ultimo tassello mancante può conferire, malgrado tutto, quel senso che nessuno di noi può fare a meno di cercare.
Se la struttura dell’intreccio fin dalla prima puntata sembra voler riprodurre l’effetto della mente in progressiva, inesorabile «disgregazione» del suo protagonista, con salti continui tra i tre momenti storici in cui la storia si snoda, alcune soluzioni di regia ripetute episodio dopo episodio fino a questo finale rendono alla perfezione i meccanismi della memoria, con gli echi del passato che fanno irruzione all’improvviso nel presente, e la mente che a fronte di un dettaglio finisce per rivivere con chiarezza cristallina scene perdute nel flusso inesorabile del tempo. Sono solo momenti, parentesi di luce avvolgente che irrompono nel cuore di tenebra della foresta in cui siamo costretti a brancolare, la giungla da cui come Purple Hays non potremo mai davvero venire fuori. Ma è per quei momenti che vale la pena lottare e andare avanti, anche se non sappiamo cosa ci aspetta nel buio.
«Non sarebbe una storia che vale la pena raccontare?» ribadisce ad Hays l’ennesima apparizione di Amelia. È quello che Nic Pizzolatto ha fatto con questa terza stagione, con una resa di scrittura e performance (Mahershala Ali, Stephen Dorff, Carmen Ejogo, Scoot McNairy) che non hanno nulla da invidiare alla prima di Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Noi, ancora una volta, siamo rimasti inchiodati ad ascoltarlo. Ci troverà ancora qui, la prossima volta che avrà una storia così da raccontarci.