We Own This City
Vent'anni dopo, quel che resta di The Wire porta alla resa dei conti la propria eredità: soldi e ambizioni sono meno, ma è ancora la miglior televisione possibile
We Own This City prosegue il gradito revival nostalgico che nell'ultimo biennio va riscoprendo la gloriosa prestige tv dei primi 2000. Da Deadwood a Sex and The City, da West Wing fino ai Soprano, un tardivo epilogo in odore di rimpatriata scolastica non è negato a nessuno. Poco di cui entusiasmarsi, finora: carta bianca non si dà più a nessuno, e anche i maggiori colossi della cultura pop devono sottostare all'implacabile pragmatismo del mondo televisivo. Come al solito, i confini tra scelte artistiche e compromessi produttivi sfumano; ci sono le direttive dei network, le piattaforme, gli algoritmi, i sondaggi di marketing sui social e gli obblighi contrattuali da tenere in conto. Se I Molti Santi del New Jersey è, in definitiva, brutto, non è solo colpa dei Soprano; le contingenze che vent'anni fa permisero a David Chase di costruire in libertà il proprio capolavoro, si sono evidentemente esaurite con esso.
Con We Own This City tocca ora a The Wire, rinnovando il confronto arbitrario quanto inevitabile tra i due capolavori e i rispettivi aggiornamenti. E se alla prova del 2022 l'arte di Chase ha mostrato le rughe, la vittoria "postuma" dell'eredità di David Simon è netta.
A differenza del gruppo Sopranos, per il team di Simon (il romanziere George Pelecanos, l'ex poliziotto Ed Burns, il cronista William Zorzi) quella mitica era HBO fu un punto di partenza più che di arrivo. La poetica del gruppo capitanato dal giornalista di Washington si sarebbe in seguito affinata su prodotti eccellenti, seppur di minor impatto rispetto al capolavoro iniziale (che Simon reputa il proprio lavoro più debole e immaturo, ovviamente sbagliando). I recenti The Deuce e The Plot Against America non devono però essere andati così bene, almeno in termini di spese: e così, anche l'attesissimo ritorno a Baltimora deve far fronte a nuovi paletti.
La prima cosa che salta all'occhio in We Own This City, corollario tematico più che sequel, è proprio la riduzione di scala: un progetto che dieci anni fa si sarebbe strutturato lungo tre o quattro stagioni, è qui costretto in sei pienissimi episodi, per lo più in interni, affidati al dialogo espositivo più che all'azione e alle immagini. È cambiato il mercato: si lotta contro il triplo dell'offerta, con un terzo del budget. Per We Own This City, il nuovo regista Reinaldo Marcus Green baratta la commedia umana balzachiana per una struttura contorta, che imbriglia a fatica la molteplicità di storie e implicazioni. Questione di necessità, più che di poetica? Come sempre in tv, si parla della stessa cosa.
We Own This City, ma anche we owe: un'ammissione di colpa, a nome del Baltimore Police Department, per bocca dei suoi più mitici celebratori. La delusione di Simon nei confronti della polizia americana (che ha amato e che ama) trascende però facili diagnosi incentrate su razzismo, machismo, trumpismo: ancora una volta, contano le istituzioni oltre il singolo, i fili invisibili dietro le storie individuali.
La deriva criminale della Gun Trace Task Force, l'unità tracciamento armi guidata dal carismatico Wayne Jenkins - Jon Bernthal, è dunque anzitutto un fenomeno sociale. Nel momento in cui la war on drugs ha spostato la priorità delle forze dell'ordine sull'incarcerazione di massa, la polizia è divenuta arma politica rivolta contro la cittadinanza; in un simile scenario, il cartello di poliziotti di strada dedito a estorsioni e rapine non è che un'inevitabile fatalità. Vestigia di una mitologia gangsteristica senza più posto nel grigiore digitale-depressivo di questo decennio, gli spacciatori stessi escono di scena. Travet della pubblica sicurezza con quote di arresti e statistiche da gonfiare, gli impigriti e proletarizzati sbirri che un tempo si guardava con simpatia restano ora unici testimoni del disastro.
Riprendendo le file della splendida e poco vista Show Me a Hero, il campo sociale diviene l'unico chiamato in causa. Laddove in The Wire o in Treme il privato faceva da contraltare e complemento all'inchiesta, eroi e anti-eroi di We Own This City non sembrano esistere oltre la propria funzione pubblica. Spogliato di una vita interiore, il racconto noir di polizia corrotta (da Ellroy a Ayer) perde ogni dimensione di tragica moralità: inesistenti o irrilevanti, le motivazioni del singolo non contano più. Al mito hollywoodiano della agency, si contrappone l'idea materialista di un Potere non metafisico, ma concreto e feroce.
Se la tv di Simon, Pelecanos, Burns e Zorzi rimane, ancora oggi, una delle più complete e mature espressioni del medium, è proprio merito di questa sua lucida freddezza. Beatamente sordo ai trend della serialità coetanea, in We Own This City gli obbligatori trope del genere sono assenti - così come il giudizio, il distacco, i relatable characters con il loro psychological development e gli opportuni redemption arcs. All'editoriale scandalistico si contrappone l'inchiesta pubblica, al moralismo di pancia la complessità del reale. Anziché inseguire il cinema in un confronto a perdere, sfrutta i mezzi della scrittura televisiva per allargare a dismisura la visione, materializzando le istituzioni più astratte del contemporaneo come personaggi parlanti di un dramma collettivo.
The Wire, a chi lo vide ai tempi, diede l'indimenticabile sensazione di aver "aperto gli occhi", per la prima volta, sul reale potenziale del racconto seriale. Era una tv che pretendeva l'attenzione e la partecipazione propria dei testi accademici più importanti, con i quali apriva un dialogo in grado di superare i vecchi modelli del crime. Un prototipo mai eguagliato, e neanche avvicinato; non dai diretti discendenti, oggi fiore all'occhiello della produzione HBO (The Night Of, Chernobyl) - e nemmeno dai suoi stessi autori, che quel livello di budget e libertà non avrebbero avuto più. We Own This City allora neanche ci prova, si smarca dal confronto, chiude il proprio percorso in sei faticosi e magistrali episodi che, stavolta, non faranno la storia. Ma cedere alla nostalgia, una volta tanto, è perdonabile.