Esterno notte
Una ricostruzione storica di rara potenza ed efficacia, un racconto seriale che tratta la nazione come corpo psichico collettivo e attraversa versioni diverse del rapporto tra gli individui e il potere, dalla ribellione febbrile e obnubilata all'allucinazione onirica dettata dalla colpa. Marco Bellocchio è ancora il miglior regista italiano vivente.
Sembrano due carboni ardenti, gli occhi, nonostante siano neri come lo sono i capelli crespi, le sopracciglia spesse, le occhiaie sul viso incavato. Se il nero potesse bruciare lo farebbe dagli occhi di Daniela Marra, alias Adriana Faranda, ex brigadista pentita che assieme al compagno, Valerio Morucci, fece da postina e ponte logistico nel rapimento Moro. Similmente a Maya Sansa – la cui Chiara in Buongiorno, notte nasce come crasi di Anna Laura Braghetti e della stessa Faranda – il viso infiammato della brigatista è il miglior segno possibile di ciò che è l’immagine nel cinema di Marco Bellocchio, l’epitome che più ne rivela e restituisce la natura umbratile, terrigna, fortemente contrastata nei tagli di luce che riscrivono la geometria di tessuti e superfici. Esterno notte, nella sua architettura perfettamente calibrata e squisitamente seriale (checché ne dica la querelle di turno) è certo questione di scrittura, intelligenza drammaturgica e grande ricostruzione storica dei caratteri e delle situazioni, ma tutto si manifesta nel tono chiaroscurale delle sue immagini, caravaggesco come nelle altre migliori opere di Bellocchio e spesso posseduto da un’energia febbrile che è incredibile sprigioni ancora dal set di un regista di ottanta e più anni – eterno furioso ragazzino e ancora una volta il più giovane e il migliore, perché irrequieto, inesausto, indomito, del cinema italiano.
Ma non è solo questione di incandescenza; nonostante l’opposizione del titolo, Buongiorno, notte è il nucleo primigenio di tutto il racconto, come se Esterno notte non fosse altro che la lunga oscurità sognata in uno degli incubi peggiori del paese Italia. Nel film del 2003 abbiamo lasciato Chiara sognante, con le immagini nella sua mente che cercano un fato alternativo, una seconda possibilità; da lì parte Esterno notte, riprendendo in apertura e chiusura il rapporto tra realtà e finzione, quel legame necessario per cui abbiamo periodicamente bisogno di processare attraverso l’elaborazione artistica il nudo fatto storico, per capirlo e magari deviarlo, rimediarlo, redimerlo. Ma adesso non c’è più solo un covo e i suoi abitati da riscrivere e reimmaginare, non è più questione di prigionieri e prigioniero, che anzi nella serie diventano pressoché invisibili una volta iniziati i 55 giorni di sequestro; come indica il titolo, Bellocchio ora fa i conti con l’esterno, con ciò che c’è oltre il rifugio-prigione, ben sapendo che se le prospettive si moltiplicano (di qui la frammentazione seriale dei punti di vista, per cui ogni episodio si concentra via via sull’uomo, sul potere, sulla chiesa, il terrorismo e la famiglia, per chiudere infine sul conto che la Storia impone ai vivi) l’elaborazione del sommerso è sempre questione onirica di allucinazioni, ossessioni e sogni. La nazione raccontata da Bellocchio è quindi un corpo psichico collettivo, un sistema umano vulnerabile, permeabile all’incubo, che si tratti della vitiligine sulle mani di Cossiga, nuova Lady Macbeth dalle macchie che non si possono lavare, o dei gesti automatizzati, spenti, di un brigadista sonnambulo. Del resto nessuno riesce a dormire, in Esterno notte; tutti ricorrono a tranquillanti, benzodiazepine, eroina, dai potenti annidati nel Transatlantico ai giovani che si drogano sugli autobus, e chi anche cerca di trovare un corpo amico cui posarsi accanto non viene ascoltato, quel letto e quel calore gli vengono vietati. E poi c’è il Papa, nel più alto dei saloni, che vorrebbe imporsi una via crucis ma il corpo lo tradisce e non resta che il cilicio, perché in qualche modo quella mente tocca pur azzittirla, quelle immagini televisive di Moro con la croce che soffre sul Calvario e la DC a seguire incurante devono pur cessare. Questa lunga notte deve pur cessare.
Faranda e Cossiga sono quindi gli elementi più riconoscibili dell’approccio autoriale di Bellocchio, in loro tornano l’intensità febbrile del credo politico e la devianza onirica, allucinata dell’agire politico, e gli episodi che li vedono protagonisti sono i migliori del pacchetto, i più lucidi nel bilanciare le volontà di scavo psicologico e giudizio storico, tendenzialmente divergenti ma qui unite, sinergicamente. La ricostruzione drammatica di Esterno notte non assolve ma rende più limpido il peso storico dei fatti, nonostante la lente della finzione ci permetta di sentire tutto il peso umano delle scelte, dei vincoli, delle pressioni. In questo senso l’episodio dedicato a Papa Paolo VI è il più esplicito nel mostrare l’incompatibilità della dimensione umana con quella del potere, mentre inevitabilmente resta come unico vero spauracchio, unica maschera assolutamente inconoscibile, Giulio Andreotti. Come già capito da Sorrentino, in lui vi è un abisso che vieta ogni indagine psicologica profonda, un precipitato delle coordinate morali che non permette avvicinamento, anche perché piuttosto che subire una scrittura ogni versione di Andreotti è un’emissione di significato, è un’istanza scrivente. Sua è la linea complice della “fermezza”, sua è la cucitura sul corpo di Aldo Moro della figura del martire, del Cristo steso sullo scudo crociato irto di spine, condannato a espiare i peccati del partito e della classe dirigente tutta. Non a caso bisogna andare nel campo immaginifico della finzione per trovare – e restituire alle cronache, per quanto artistiche – la risposta di Aldo Moro a quest’assunzione involontaria e obbligata di significato; nel sesto episodio, che parte con l’escamotage della rappresentazione teatrale (il cui ruolo è lo stesso che in Buongiorno, notte aveva la sceneggiatura metacinematografica scritta da Enzo) vediamo Moro ribellarsi al suo destino, rivendicando il diritto di ogni uomo di temere la morte, e volerla quindi evitare. Interpretata da un Fabrizio Gifuni in stato di grazia, è già “la scena della confessione”, e come altre di questa serie resterà agli annali nella carriera di Bellocchio. Come un’altra confessione, quella del brigatista Morucci, quando urla la sua incapacità di credere alla rivoluzione armata e il bisogno, più intimo e inconscio, di ribellarsi all’autorità costituita, alla voce del Padre; o l’invasione domestica subita dalla moglie di Moro, costretta a ospitare le pose e i salamelecchi del potere, o ancora il circo dei politici DC che protestano per i tagli alle poltrone.
È una lista molto lunga quella dei momenti e delle immagini memorabili; ne scegliamo altre due, le ultime: il campo-controcampo tra Adriana Faranda e il manifesto di Margherita Cagol, “martire” BR, appeso nell’armadio, e Cossiga chino sulle cuffie nella sua stanza dei segreti, colma di intercettazioni, registratori, voci di mitomani e depressi solitari, voci in cerca di qualcuno che le ascolti. Tra il fuoco combattente della fede obnubilata e la solitudine bipolare e colpevole dell’uomo di potere.