Dracula (BBC- Netflix)
Per BBC e Netflix, Moffat e Gattis omaggiano e reinventano il capolavoro di Bram Stoker, un tentativo coraggioso e inedito che avvince ma si perde nella parte conclusiva.
Nell’ambiente culturale dell’Inghilterra vittoriana gli incontri tra celebri scrittori non erano una rarità. Non c’è nulla di strano, dunque, nel fatto che Bram Stoker e Arthur Conan Doyle si conoscessero e si frequentassero. Quello che però risulta interessante constatare sono le analogie dicotomiche che intercorrono tra le loro due creazioni più celebri: da un lato Sherlock Holmes, l’infallibile detective che agisce alla luce della razionalità; dall’altra Dracula, il vampiro immortale che si muove all’ombra della superstizione. Due nasi aquilini, due pallori spettrali, due sguardi penetranti ma soprattutto due solitudini esasperate messe a confronto (Dracula isolato nel suo castello/labirinto, Holmes rintanato nel suo studio/laboratorio) che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo, riscuotendo consensi da una generazione all’altra di appassionati.
Il gioco di intrecci e di rimandi letterari e cinematografici che vede protagonisti i due personaggi è sterminato. Nella letteratura popolare non sono mancati incontri ufficiali tra i due, come quello suggerito da Laureen D. Eastman nel suo romanzo pastiche Sherlock Holmes vs Dracula (1978), o quello proposto da Fred Saberhagen in Dossier Holmes-Dracula (1981). Tuttavia spetta al cinema il merito di aver rafforzato il rapporto di parentela tra Dracula e Holmes. Entrambi rappresentano la quintessenza del cinema stesso perché entrambi non temono l’usura del tempo, guadagnandosi il titolo di icone più longeve ed apprezzate dal pubblico e dai registi – tanto da essere state rappresentate, citate, imitate, omaggiate e parodiate dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri. A tal proposito è curioso notare come alcuni attori abbiano impersonato entrambi i ruoli sullo schermo nel corso della loro carriera. È emblematico il caso di Christopher Lee – il Dracula per antonomasia delle produzioni Hammer – chiamato in seguito dal regista Terence Fisher a interpretare Sherlock Holmes nel film La valle del terrore del 1962. Volendo restare in “famiglia”, lo stesso Peter Cushing, dopo il ruolo di Van Helsing, indosserà i panni del detective in una fortunata serie di telefilm e in due pellicole di successo.
Tutto questo per sottolineare il filo rosso che lega storicamente Holmes e Dracula, sia nella realtà che nella finzione, come se fossero due facce della stessa medaglia. Non si può evocare l’uno senza finire per coinvolgere l’altro. Un destino cui non sono riusciti a sottrarsi neanche i due autori di punta della BBC: Steven Moffat e Mark Gattis, che dopo essersi cimentati in un’audace trasposizione dell’opera di Doyle, hanno applicato lo stesso schema al nuovo adattamento di quella di Stoker. Infatti la coppia di sceneggiatori, sull’onda dell’ottimismo suscitato dal successo di Sherlock – considerata una delle migliori serie inglesi attualmente in circolazione – non ha perso tempo per traslocare da Baker Street in Transilvania, mantenendo fede allo spirito che li ha sempre contraddistinti: la provocazione.
Concepita quasi per scherzo, dopo uno scambio di battute sul look tenebroso di Benedict Cumberbatch, la serie dedicata alle gesta di Dracula è un salto continuo tra passato e presente, un coito ininterrotto tra tradizione e innovazione, uno sfarzoso luna-park vampiresco che mira a sovvertire, sconvolgere fino a sabotare tutto quello che siamo stati abituati a conoscere sul “Principe delle Tenebre”. Infatti se la maggior parte delle pellicole precedenti, comprese le più dissacranti, cercava, per quanto possibile, di giocare secondo le regole stabilite dal corpus narrativo di Stoker, questa versione le aggira, le corrompe, reinventandole senza dimenticare di omaggiare chi le ha ispirate. Il canovaccio originale è usato solo come pretesto per creare un elseworld, parallelo a quello canonico, che si abbevera alle fonti del culto per fornire al pubblico nuove risposte a vecchie domande. Per renderlo possibile Moffat e Gattis giocano sporco fin da principio, barando apertamente, come in una partita a scacchi dove, se ti distrai per un attimo, le pedine vengono scambiate sulla scacchiera. Nel corso di questa seconda trasposizione televisiva targata BBC e dedicata al vampiro (la prima risale al 1977), gli autori si divertono a spiazzare continuamente lo spettatore mutando in corso d’opera sia l’ambientazione – dall’incipit gotico al finale contemporaneo – sia i toni – un mix di horror, commedia e poliziesco – sia i connotati dei personaggi, a partire dal protagonista principale.
Dimenticate il Dracula di Coppola, l’antieroe shakespeariano dall’indole tormentata e romantica con il volto di Gary Oldman, perché quello interpretato superbamente da Claes Bang (The Square), nonostante le apparenze, non potrebbe essere più distante da quanto visto finora. Questo Dracula targato 2020 è un “mostro” moderno e pragmatico, non teme gli specchi, la luce del sole o i paletti di frassino, semmai ne è perversamente affascinato come è altrettanto incuriosito da tutti gli orpelli che la civiltà cerca di utilizzare contro di lui ma che lui riesce a sfruttare a proprio vantaggio. La sua natura narcisista lo spinge ad agire subdolamente, sotto le spoglie del mito, per stabilire con le sue vittime una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra simbiosi e parassitismo. Non c’è nulla di nobile nelle motivazioni che lo spingono a raggirare, sedurre e uccidere, soltanto l’esigenza di “vampirizzare” chiunque si infatui di lui, non conta che si tratti di un uomo o di una donna, l’importante è poterne assorbire l’essenza pur di continuare ad alimentare un solipsismo esistenziale che ha ben poco di leggendario. Né sono la prova le tragiche vicende raccontante nei tre macro-episodi che compongono la serie, ognuno dedicato ai malcapitati protagonisti che incrociano Dracula lungo il suo cammino; da Jonathan Harcker (John Heffernan), qui relegato al ruolo di mera comparsa, all’equipaggio inerme del Demeter, fino ad arrivare a Lucy Westenra (Lydia West), la ragazza sedotta e abbandonata dal Conte, dopo essere stata resa sua schiava.
In questo viaggio tra le pieghe del tempo e dello spazio – degno del Doctor Who, altra leggenda inglese reinventata da Moffat – nulla sembra intaccare il “sangue freddo” del vampiro, neanche l’anonimato, al punto da osservarlo nel finale di stagione mentre si aggira indisturbato nella metropoli londinese del ventunesimo secolo, perfettamente a suo agio nei panni del predatore urbano alla prese con speed dating e social network. L’unica minaccia alla sua leggendaria incolumità, fisica e mentale, è rappresentata dalla giovane Agatha Van Helsing (Dolly Wells). È lei il personaggio chiave della storia, il richiamo più esplicito a Sherlock: una suora/detective cinica e irriverente che grazie a una logica ferrea, che la rende parzialmente immune al fascino secolare della figura del vampiro, mette puntualmente in dubbio ogni atavica certezza del protagonista, mostrando alla luce del sole tutta la sua vulnerabilità.
Nel bene e nel male purché se ne parli. È questo il motto dei due autori inglesi con licenza di re-inventare i classici, un atteggiamento dissacrante che è riuscito ad attirare su di sé le ire funeste dei puristi del genere, defraudati da un adattamento schizofrenico che nell’ossessiva ricerca di stupire senza compiacere delude il grande pubblico. A differenza di quanto visto in Sherlock, stavolta Moffatt e Gatis peccano di hybris, soprattutto nella parte conclusiva della storia, dove il clima di tensione iniziale viene incrinato da una gamma di plot-twist di dubbio gusto, sfociando in un finale caotico e sbrigativo che purtroppo non rende giustizia al lavoro svolto dal comparto attoriale. Tuttavia, al netto dei difetti e delle critiche, è ingiusto stroncare in toto un’operazione che per quanto pretenziosa possa sembrare, rimane uno dei tentativi più coraggiosi e inediti di “trasfusione” del mito di Dracula con il suo scomodo bagaglio di sadismo e perversione nella contemporaneità. È vero, si tratta di un antidoto imperfetto ma che cerca pur sempre di correggere l’attitudine malsana del cinema hollywoodiano a rassicurare gli spettatori, banalizzando la letteratura e riducendo le sue icone a formule stereotipate insostenibilmente kitsch e in questo senso il buon sangue (inglese) non mente.