When They See Us
Creata da Ava DuVernay, la nuova miniserie Netflix è un importante gesto di rivendicazione politica, un precedente importante per ricostruire l'identità attraverso la narrazione e condividerla con il grande pubblico.
Us and them.
Tra le tante linee di demarcazione che spezzano in gerarchie la società americana ce ne è una, invisibile e fondamentale, che contrappone i due volti della narrazione: chi racconta e chi viene raccontato. Non è un caso che tra i temi principali della recente mobilitazione civile che sta coinvolgendo gli Stati Uniti ci sia proprio il diritto all’autorappresentazione, al racconto di sé, rivendicazione anzitutto politica che nasce come reazione necessaria a un contesto socioculturale che crea, alimenta e costringe in posizione subalterna quella che considera alterità. Del resto, nel campo di battaglia della narrazione condivisa è solo quando l’oggetto del racconto inizia a coincidere con il suo soggetto che una comunità non viene più inquadrata dall’esterno ma inizia a definire da sé i termini della propria identità e della sua messa in scena. Per questo When They See Us è il titolo perfetto per questa importante miniserie creata, scritta e prodotta da Ava DuVernay, perfetto perché mette subito in chiaro tramite l’uso di dei pronomi soggetto (they) e oggetto (us) cosa può accadere in una società in cui ci sono soltanto loro che vedono noi, quando lo sguardo (e quindi il racconto) cade verticalmente da una comunità su un’altra.
Prodotta tra gli altri da Oprah Winfrey e Robert De Niro, questa miniserie Netflix – la prima così compatta, cinematografica, strutturata in pochi episodi da più di un’ora che suddividono in fasi il racconto come capitoli di un romanzo – ambisce a ricostruire la storia dei Central Park Five, i cinque adolescenti afroamericani condannati nel 1989 per stupro solo per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di questa vicenda di cronaca, tanto paradossale quanto ancora vicina alla realtà di oggi, DuVernay cerca di restituire i passaggi umani più significativi, dalla cattura al processo, dall’inizio della prigionia alla vita fuori additati come sex offenders, fino alla liberazione reale arrivata quasi 15 anni dopo e dovuta alla confessione del vero colpevole. Ma un arco di tempo simile, per di più incentrato su cinque personaggi e cinque complesse situazioni famigliari, è davvero molto materiale da gestire e comprimere in quattro episodi, seppur lunghi un’ora e più ciascuno; per questo When they See Us sposa le sue istanze di riappropriazione identitaria di uno spazio narrativo mettendo al centro della sua ricostruzione l’aspetto umano della vicenda e relegando al fuori campo tutto ciò che esula dalle parabole dei personaggi e dalle loro sofferenze.
Siamo ben lontani dall’American Crime Story dedicata a O.J. Simpson, DuVernay non prova neanche a ripresentare le fasi processuali, le svolte cronachistiche, la copertura mediatica (una delle maggiori per un caso criminale tra i più seguiti nella storia della città). Se il primo episodio, splendido e bruciante, può trarre in inganno nella sua vicinanza alle dinamiche poliziesche, di fatto quest’attenzione agli eventi è presente perché funzionale al registro drammatico adottato dallo show, per il quale l’empatia spettatoriale e la condivisione pubblica di un dramma razziale sono gli obiettivi chiave in quell’ottica di riscoperta dello sguardo altro di cui si è detto. When They Us non indaga la Storia né si interroga sui meccanismi socioculturali soggiacenti al fenomeno, talmente noti e famigliari all’us posto al centro della vicenda (la comunità afroamericana) da non aver bisogno di ulteriori illustrazioni; piuttosto lo show ci prende per lo stomaco e ci porta a contatto con il terrore e il trauma di cinque adolescenze spezzate, cinque famiglie infrante, cinque vite deviate, suscitando indignazione, rabbia, incredulità e angoscia con un approccio pensato per il grande pubblico, intelligente e necessario considerata l’urgenza del racconto e la necessità di ricorrere all’empatia drammatica per condividere nuove prospettive.
Per quanto calibrato e nobile, questo taglio narrativo però funziona a fasi alterne, portando a episodi più centrati ed efficaci (il primo e il quarto) e altri meno incisivi e più superficiali (il secondo e soprattutto il terzo). Del resto, anche escludendo le componenti sociologiche e giornalistiche, il materiale umano resta vastissimo e difficile da orchestrare, e la conseguenza più immediata è una forte superficialità e approssimazione ogni volta che il racconto cerca di farsi più corale; se come detto l’avvio dell’inchiesta è pressoché perfetto (tanto da essere difficile da guardare senza che l’indignazione e il disagio afferrino alla bocca dello stomaco), il processo a seguire e soprattutto l’esperienza della prigione con il passaggio all’età adulta sono i momenti più deboli del racconto, fasi cruciali in cui però la scrittura si fa approssimativa e poco incisiva. Nonostante vengano introdotti temi importanti nella psicologia dei personaggi, in particolare legati alla figura paterna, questi nodi drammatici scivolano via senza che la narrazione riesca a trovare spazi, tempi e modi per andare veramente a fondo. Questo per fortuna non avviene nel finale, al quale non a caso arriviamo dopo aver seguito l’odissea giudiziaria di un solo personaggio, Korey Wise, l’unico condannato a scontare anni di galera effettiva in quanto già sedicenne al momento del processo. Il suo percorso all’interno delle carceri americane è toccante e straordinariamente efficace per impatto e forza espressiva, mostrando cosa sarebbe potuta essere la serie se DuVernay avesse calibrato meglio il materiale con gli spazi a disposizione.
Un aspetto chiave di When They See Us riguarda quindi le scelte estetiche messe in campo. Al registro drammatico popolare, scelto per veicolare con maggior fluidità possibile l’immedesimazione nell’altro, corrisponde una grammatica visiva molto stilizzata, densa di soluzioni forti e ricorrenti come la fotografia di un blu evanescente, gli sguardi in macchina, la costruzione di inquadrature simboliche e sequenze anti-narrative. Guardando la miniserie torna in mente l’autorialità esibita e ancora irrisolta di Barry Jenkins, o meglio ancora Dear White People, altra serie originale Netflix che dello stile ha fatto un marchio di fabbrica e in cui forma e contenuto sono perfettamente assemblati. Il risultato è che When They See Us spiazzerà facilmente lo spettatore poco avvezzo a nuove forme di racconto black, specie se consideriamo il fatto che questo tipo di storie (la ricostruzione giudiziaria e umana di un caso di ingiustizia) presentano ormai un linguaggio estremamente codificato e molto aderente alla tradizione classica (si pensi alla pulizia, elegante e cristallina, di miniserie superlative della HBO come The Night Of e Show Me a Hero). Quella offerta da When They See Us è invece un’estetica nuova, in via di definizione, sicuramente lungi dall’esser completa per equilibrio e portata espressiva ma comunque importante perché figlia di un’urgenza civile e della consapevolezza fondamentale che l’accesso alla definizione narrativa di sé non può passare solo per il cosa ma anche per il come.