Black Mirror - Quinta stagione

Dopo l’esperimento di "Bandersnatch", la serie di Charlie Brooker adattata a Netflix si conferma sempre meno incisiva seppur ben confezionata.

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Per diversi anni Black Mirror è stata sinonimo non solo di serialità televisiva di qualità, ma anche di come i prodotti britannici fossero sempre un passettino avanti al resto, soprattutto riguardo alla brutalità senza compromessi con cui analizzavano le parti più contraddittorie dell'animo umano. La creatura di Charlie Brooker nel corso delle sue prime stagioni – più l'eccellente speciale di Natale White Christmas – si è fatta conoscere in tutto il mondo, grazie a un'ironia peculiare e alla capacità di leggere il legame inscindibile tra la nostra società e la pervasività della tecnologia, ragionando episodio dopo episodio su quanto e come questa relazione cambia all'intensificarsi della presenza dei dispositivi tecnologici nelle nostre vite.

Dalla terza stagione Black Mirror è passata dal locale al globale, abbandonando la nicchia perennemente tesa alla sperimentazione di Channel 4 per passare al pubblico sempre più numeroso di Netflix. Questo cambiamento ha innescato un processo di trasformazione della serie ancora in atto, in particolare per l'esigenza di parlare a tutti, diversificare il proprio stile e trasformare alcune caratteristiche produttive come formato e personalità coinvolte.
Gli episodi sono passati da tre a sei per le stagioni terza e quarta, in modo da spaziare di più dal punto di vista dell'esplorazione dei generi; sono comparse star internazionali come Bryce Dallas Howard; le puntate hanno raggiunto il minutaggio di circa un'ora per uniformarsi ai drama targati Netflix; alcuni registi di fama internazionale come Joe Wright sono stati chiamati a dirigere gli episodi. Questo percorso ha visto una tappa sperimentale e contraddittoria con Bandersnatch, episodio interattivo e per questo decisamente innovativo (almeno dal punto di vista dell'esperienza di visione) arrivato alla fine del 2018, che da un lato ha stimolato la curiosità dei fan, dall'altro ha lasciato una leggera delusione perché le principali svolte drammaturgiche non facevano parte di quelle opzionabili dagli spettatori.

La quinta stagione arriva dopo questo percorso, presentandosi per stessa ammissione degli showrunner Charlie Brooker e Annabelle Jones come una diretta prosecuzione del percorso iniziato con Bandersnatch, anche solo per il fatto che sono storie pensate e realizzate contemporaneamente. Allo stesso tempo però, almeno sulla carta,  la serie sembra tornare al passato scegliendo il formato da tre episodi stagionali, dando l'idea di rimediare al rischio di dispersione narrativa corso dalle stagioni precedenti e tornando a un modello in grado di valorizzare di più il singolo tassello narrativo. Questo compromesso però non è bastato a ridare smalto a Black Mirror, che a giudicare da questi episodi appare come una serie senza più nulla di davvero importante da raccontare, cosa che è forse il peggiore dei mali per uno show che faceva dell'urgenza del messaggio (oltre che della qualità con cui veniva veicolato) una delle sue principali caratteristiche.


Questi episodi riprendono in tutto e per tutto lo stile dell'era “americana” della serie creata da Charlie Brooker, ma a differenza delle migliori puntate degli ultimi due anni (San Junipero e USS Callister), non c'è qualcosa di nuovo da raccontare, bensì nel migliore dei casi una buona idea sviluppata in maniera superficiale.
Dal punto di vista promozionale Netflix ha cercato di vendere meglio che poteva quest'annata – come già fatto con Bandersnatch – in particolare puntando sui tre volti che caratterizzano gli episodi: Anthony Mackie (famoso per il ruolo di Falcon negli Avengers), Andrew Scott (conosciuto per il personaggio di Moriarty in Sherlock) e Miley Cyrus (popstar dal successo planetario). Possiamo dire con ragionevole certezza che il comparto attoriale è forse tra le cose più riuscite di questa stagione, perché pur allargando lo spettro agli interpreti meno noti di quelli appena citati, siamo di fronte a una serie di eccellenti interpretazioni, in grado di trasmettere in maniera convincente tutto ciò che la serie vuole raccontare.

E qui arrivano i problemi, perché ciascuno di questi tre episodi è caratterizzato da importanti criticità, tanto da rendere addirittura imbarazzante il paragone con qualsiasi delle stagioni precedenti della serie.
Il secondo episodio, per esempio si allontana completamente dal concept della serie per ragionare sulle conseguenze mortifere che può avere l'attuale legame di dipendenza che esiste tra uomo e tecnologia. Il problema non è tanto la mancanza di immaginazione di un futuro possibile – cosa che da sempre ha caratterizzato la serie rendendola più di una volta profetica – ma la pigrizia con cui la riflessione sul presente viene sviluppata, apparendo scentrata e priva di una reale urgenza. Se non ci fosse la straordinaria interpretazione di Andrew Scott a rapire gli spettatori, infatti, Smithereens sarebbe un episodio estremamente banale, in cui l'effetto domino che si innesca ha ben poco a che vedere con la tecnologia.
Il terzo episodio è quello che ha ricevuto più spazio dal punto di vista promozionale per via della presenza di Miley Cyrus e per certi versi rappresenta la più cocente delle delusioni. Rachel, Jack, and Ashley Too, infatti, si basa su un'idea che al contrario di Smithereens c'entra tantissimo col concept di Black Mirror, così tanto che è stata già ampiamente (e molto meglio) sfruttata in episodi come Be Right Back. Nonostante non sia per nulla originale e sia privo dell'urgenza che ha sempre caratterizzato Black Mirror, questo episodio è anche uno di quelli che riflette meglio lo stato attuale della serie, mostrando un prodotto che non ha più l'obiettivo di angosciare il mondo con racconti sofisticati, inquietanti e – a guardar bene – non adatti a tutti, ma mira a un pubblico molto più ampio, anche a costo di apparire una parodia di se stesso. A questo proposito Rachel, Jack, and Ashley Too può essere visto come un episodio senza alcuna ambizione, senza la voglia di stupire e di rivelare una nuova prospettiva sul contemporaneo e sul futuro, ma anche come una storia compiuta e ben gestita, una sorta di favola sul female empowerment che alla fine lascia gli spettatori col sorriso sulle labbra.
Sulla carta il miglior episodio è il primo Striking Vipers, che gode come gli altri di ottime interpretazioni e in più è supportato da un'idea di partenza estremamente originale, che prova a riflettere sulla moltiplicazione delle identità (in particolare nel passaggio da reale a virtuale) e sui limiti e le contraddizioni della mascolinità tradizionale. Il discorso sulla bromance, sull'omosessualità repressa, sull'amore come sentimento fluido e sul legame tra sentimenti e attrazione sessuale rivelava una vasta quantità di possibili sviluppi, tutti molto interessanti, soprattutto se legati all'intensificazione tecnologica e al mondo dei videogame. Purtroppo però la gran parte delle questioni messe sul tappeto sono state trascurate, perché Brooker ha evitato di ragionare su cose come il cambio di genere nel passaggio da reale a virtuale, sugli effetti di questa trasformazione identitaria nella concezione del sé, sui confini tra sesso reale e sesso virtuale e su tante altre facce dell'intrigante prisma che aveva tra le mani. In maniera molto comoda ed eteronormativa, la riflessione dell'autore si sposta sulla monotonia della coppia etero e sulla salute coniugale che viene garantita attraverso una serie di trasgressioni controllate da parte di entrambe le persone. Una vera occasione sprecata per un'idea di partenza meravigliosa, che in mano a un'autrice come Jill Soloway (solo per fare un esempio) sarebbe potuta sfociare in qualcosa di davvero importante.

Black Mirror sembra essere un brand su cui Netflix vuole ancora investire, perché l'esperimento interattivo è andato molto bene e dal punto di vista promozionale la serie rende ancora tanto. È impossibile però non constatare l'involuzione dello show, soprattutto in un contesto in cui prodotti seriali che trattano temi simili riescono a esprimersi con acutezza infinitamente maggiore, come sta dimostrando in queste settimane Years and Years di Russell T. Davies.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 11/06/2019
Durata: 5° stagione da 3 episodi

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