Tiger King
La serie docu-crime dal successo planetario è soprattutto una fotografia in filigrana dell’America schizofrenica trumpiana, mai come ora così incapace di riallacciarsi alla realtà, mai così avvitata in un solipsismo sinistro.
Già dall’andatura claudicante di Joe Exotic è leggibile il sintomo di uno squilibrio patologico che ha radici profonde. Eccessivo, parossistico, del tutto o quasi inconsapevole di sé, il sedicente “Tiger King” dell’Oklahoma è l’immagine di un’America narcisista votata a una demente tensione autodistruttiva e in preda alle proprie allucinazioni. Tutto in lui comunica instabilità e dismisura. Niente di più distante dalla «fearful symmetry» evocata da William Blake, sintesi del sublime incarnato dal seducente e spaventoso felino della poesia. Eppure anche Joe irretisce lo spettatore, a modo suo. Un ribaltamento di prospettiva non secondario quello che ci porta dal sentimento del sublime alla fascinazione per il freak show. Ma andando con ordine, è proprio dal commercio di grossi felini (big cats) e dalla passione di molti americani per questi animali che è iniziato il percorso che ha portato l’ambientalista e filmmaker Eric Goode a imbattersi in Joe Exotic. Ed ecco allora la docu-serie crime Tiger King, uno dei più inaspettati successi di Netflix, tanto eclatante da indurre la stampa nostrana a dare risonanza mediatica agli sviluppi delle vicende raccontate mentre oltreoceano si parla già di un film e per la serie si prospetta una seconda stagione.
Il motore che innesca il progetto, quasi sul punto di ridursi ben presto a una sorta di MacGuffin, conduce Goode in un circo a tre piste di personaggi al limite della ragione umana, e talvolta ben al di là di essa, freak che non stonerebbero in un film di Harmony Korine o nel girone infernale di Louisiana. Se non fosse però per il fatto che Tiger King rivolge il suo sguardo altrove, non ai reietti delle classi più disagiate, agli invisibili di un sottobosco urbano agghiacciante, privi di mezzi per emergervi. Al contrario, gli sfruttati, – i dipendenti dello zoo di Joe costretti a nutrirsi della stessa carne cruda data agli animali o le ragazze manipolate dal patetico Bhagavan Antle – costituiscono solo una parte della costellazione di Tiger King, al cui centro Goode pone un’America di cafoni arricchiti, emanazione weird e white trash di una nazione che ha trasformato il sogno in incubo, l’individualismo in logica coatta del profitto. Individui che, ben lungi dall’essere degli invisibili, risentono all’opposto di una morbosa ossessione per l’autorappresentazione e trovano i mezzi per soddisfarla. Perché Tiger King non è solo una riflessione sulla tendenza a ridurre la vita in spettacolo connaturata alla società statunitense, sul rapporto paranoide che sussiste tra show e business, ma anche e soprattutto la fotografia in filigrana dell’America schizofrenica trumpiana, mai come ora così incapace di riallacciarsi alla realtà, mai così avvitata in un solipsismo sinistro, di cui l’immagine di un Presidente trincerato nella Casa Bianca durante le rivolte partite da Minneapolis è il triste emblema – e da cui la parte più sana della nazione si sta finalmente emancipando. Del resto lo stesso Joe, che nel 2016 si era candidato alle presidenziali come indipendente e nel 2018 alle elezioni per il governatorato dell’Oklahoma, ha recentemente chiesto ai suoi fan, dal carcere, di intercedere con il Presidente per ottenere la grazia.
Tiger King riprende così le redini di quel discorso iniziale, solo all’apparenza ridotto a mera miccia narrativa, per ampliarne la prospettiva e illuminare il quadro in cui si inserisce. Lo storytelling, talmente compito da lasciare dubbi su un intervento pilotato dell’autore nell’accomodare la situazione (la mente corre ancora a Minervini) non fosse per la realtà della sentenza di condanna ai danni di Joe, si snoda per sette episodi tra una miriade di colpi di scena e sottotrame, lasciando solo allo spettatore il compito di districarsi all’interno della faida tra Joe e Carole Baskin per afferrare il fulcro della serie, il suo collante profondo, sapendosi tenere alla giusta distanza dai “personaggi” e dalle loro storie, tutte false e tutte vere. Se la didascalia finale sui dati dello sfruttamento dei grandi felini negli USA può suonare come posticcia retorica ambientalista, bisogna però considerare che questo elemento acquista significato solo se messo in rapporto alle coordinate più estese di un clima, culturale prima ancora che economico, insostenibile. Implicazioni che si riflettono tanto nel macrosistema quanto nelle vite intime dei personaggi, a partire dalla storia di Joe, ripudiato dal padre per la sua omosessualità. Ma gli autori non puntano il dito. Tutt’al più lasciano che siano i molti sospetti rimasti in sospeso su alcune vicende, in una discesa sempre più cupa e delirante, a far affiorare le contraddizioni di una società dove persino dietro la causa animalista sembra celarsi la logica del brand e dello sfruttamento economico. E Carole Baskin è sicuramente in tal senso il personaggio più significativo e interessante.
In definitiva Tiger King, non propone nulla di nuovo, non ci mette di fronte a un quadro del tutto inedito, né tanto meno si preoccupa di fare della teoria documentaristica (siamo lontani anni luce dalla complessità di Grizzly Man, tanto per scomodare un illustre esempio). Il suo successo planetario si spiega da un lato con quella naturale predisposizione umana per il morboso, dall’altro con la capacità di trovare una narrazione concepita a tavolino in fase di montaggio, rispondente ai più collaudati meccanismi docu-crime, con un capacità di ri-elaborazione del materiale davvero notevole. Certo, pur a fronte del suo successo planetario, va detto che la serie richiede un po’ di tempo prima di arrivare al suo cuore di tenebra. Un problema questo che sarebbe stato risolto, probabilmente, ricorrendo a un formato più snello. 45 minuti a episodio risultano effettivamente troppi, visto che parte del materiale impiegato non sempre aggiunge qualcosa di significativo. Può essere necessario armarsi di un po’ di pazienza per superare lo scoglio del terzo episodio. Va anche aggiunto però che non è scontato aspettarsi da tutti gli spettatori, soprattutto dai più rodati in questo genere di prodotti, questo esercizio di fiducia. Ed è più che comprensibile.