Unorthodox
Ispirata alla storia vera di Deborah Feldman, la prima serie Netflix girata in yiddish è un racconto di autodeterminazione ed emancipazione da comunità oppressive.
Le conseguenze della nascita e diffusione capillare dei nuovi movimenti per l’emancipazione femminile di questi ultimi anni si sono inevitabilmente (e per fortuna) riversate anche nel cinema e nella serialità televisiva. Prima di parlare di Unorthodox, serie Netflix diretta da Maria Schrader che si rifà parzialmente a fatti accaduti, sarebbe interessante interrogarsi sul modo in cui l’audiovisivo ha affrontato questo cambiamento, rimodulandosi nelle categorie, nei generi e molto spesso anche nei temi trattati.
Sulla scia del #MeToo l’industria cinematografica statunitense ha prodotto film come L’uomo invisibile di Leigh Whannell – ma tra i film della Blumhouse ricordiamo anche i recenti e ottimi Scappa – Get out e Noi di Jordan Peele, in cui riflessione socio-culturale e forme del cinema di genere collimano perfettamente, o il meno riuscito The Hunt – e Bombshell di Jay Roach. Seppure afferenti a una medesima, universale presa di posizione politica, è interessante notare quanto i film di Whannell e Roach differiscano nel modo di trattare la materia. Da un lato c’è lo stile più ricercato e peculiare di Whannell, che rivisita il mito dell’uomo invisibile già trattato da James Whale e Paul Verhoeven costruendo allucinazioni e ombre intorno alla figura della vittima, e in cui la dichiarazione d’intenti si legge in filigrana, dietro la paura della protagonista che si fa carne viva e pulsante a poco a poco; dall’altro, il cinema-inchiesta difilato e velocissimo di Roach, tutto “preso” dal bisogno – giustissimo – di far vedere, di mostrare non tanto lo scandalo che coinvolse il capo di Fox News in quanto tale, quanto la sua trasposizione mediatica, i suoi effetti attraverso un profilarsi continuo e incessante di notizie e immagini, comprese quelle delle donne molestate da Roger Ailey che a un certo punto irrompono con quei volti su sfondo nero che spezzano per un attimo la concitazione del ritmo narrativo.
Anche il cinema documentario si vede partecipe di questa importantissima stagione cinematografica: due anni fa #FemalePleasure di Barbara Miller veniva presentato nella Semaine de la Critique di Locarno, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica. Qui la Miller indaga la condizione di subalternità cui sono tuttora sottoposte le donne di alcune comunità “isolate” nel mondo: in Somalia e nei gruppi somali londinesi continua a essere praticata la mutilazione genitale femminile; in India parlare di sesso e sessualità non è ancora possibile, specialmente per le donne i cui tentativi vengono sistematicamente boicottati; in Giappone una donna viene arrestata per aver riprodotto digitalmente il proprio organo sessuale, facendone arte e sfidando una secolare tradizione di stampo patriarcale, di uomini (e anche donne) spaventate dalla possibilità di conoscersi intimamente. Barbara Miller racconta infine la storia di Deborah Feldman, giovane donna della comunità chassidica di Williamsburg (nello stato di New York) che decide di scappare a Berlino insieme al figlio, allontanandosi per sempre da un luogo che la confinava al mero ruolo di moglie e riproduttrice. La stessa Deborah Feldman che con il libro Ex ortodossa - Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche ispira i creatori di questa miniserie.
Unorthodox comincia da una fine, o meglio da un nuovo inizio: Esther Shapiro / Esty fugge a Berlino in cerca di un suo posto nel mondo, ripudiando così la presunta protezione della comunità di ebrei ortodossi in cui è cresciuta. Insinuandosi negli interstizi di quei luoghi anacronistici e fermi dove il tempo sembra non scorrere mai, la regista sviluppa in parallelo vicende passate e presenti così da accrescere il senso di scollamento dalla realtà della comunità chassidica (dove non c’è nulla di inventato) attraverso il suo controcanto berlinese. La serie è in questo senso anche il racconto di due differenti coming of age, partendo da due prospettive culturali agli antipodi: quella di Williamsburg, in cui il passaggio alla “nuova vita” sarebbe decretato dal matrimonio; quella berlinese, in cui Esty avverte una libertà di cui non aveva mai fatto esperienza, da sempre vittima delle regole di una comunità tormentata dal senso di colpa e dai fantasmi dei sommersi e dei salvati, che fa studiare Torah e Talmud e nient’altro e in cui i precetti dell’Halakhah, una sorta di guida per tutto ciò che l’ebreo deve fare dal momento in cui si sveglia fino alla sera, vengono eseguiti pedissequamente. In cui anima e corpo sono sottoposti all’autorità religiosa. E Unorthodox è efficace perché in questo confronto fa prima di tutto un discorso sul corpo e sulla consapevolezza di avere un corpo passibile di cambiamento: dalle gonne lunghe e le calze sformate ai jeans che ne mettono in risalto le forme, ai vestiti larghi, alle scarpe col tacco. Ai capelli rasati che a Berlino vanno di moda.
I temi messi in campo da Unorthodox sono tanti: dall’autodeterminazione femminile alla possibilità di crearsi una famiglia indipendentemente dai legami di sangue, di trovare la propria identità al di fuori di un posto da sempre considerato familiare e l’unico possibile. Quel nido da cui prima o poi ci si vuole allontanare. E proprio perché non è così immediato cambiare e reinventarsi per chi cresce senza alcuna educazione o istruzione che non sia quella religiosa, il ritorno alla vita di Esty è lento e graduale: spogliarsi per farsi un bagno nel lago da cui gli ebrei cercavano di scappare durante il secondo conflitto mondiale è difficile, pieno di esitazione e timore, alla stregue del suo primo, vero, bacio o dei suoi timidissimi tentativi di inserirsi nella società, a partire dall’audizione in conservatorio. Ma soprattutto è un percorso in divenire, soltanto agli inizi, come dimostra il finale aperto.