Don't F**k with Cats: Hunting an Internet Killer
La docuserie Netflix è un viaggio negli abissi della parte morbosa del web; la storia di come il peer network della rete abbia acciuffato il killer di gattini (e non solo…) Luka Magnotta si fa riflessione sulle dinamiche della post-verità.
«Da tutto questo possiamo trarre un principio assoluto: è meglio fare qualcosa che non fare nulla. Anche quelle cretinate dei lolcat, che sovrappongono delle frasi sgrammaticate alla foto di un tenero gatto, sono un invito alla partecipazione. Il messaggio di un lolcat è semplice: “Anche tu puoi giocare, basta avere delle font sul computer»
Clay Shirky, Milioni di cervelli all’opera
La vicenda di Luka Magnotta è uno di quegli abissi in grado di restituirci in maniera spietata ma cristallina il livello raggiunto dalle acque dell’oceano della nostra vita iperconnessa. La storia del killer 30enne canadese che affina le sue abilità omicida sui gattini per poi passare all’efferato assassinio dello studente Jun Lin, ucciso, smembrato e spedito in vari pezzi all’indirizzo di diversi uffici pubblici di Vancouver nel 2012, attraversa le istanze mutevoli del contemporaneo per farsi racconto emblematico delle armi letali della post-verità. Le modalità con cui lo stesso Magnotta costruisce la propria identità sul web, con la creazione in prima persona di una settantina di pagine e profili social di fan, e di circa venti siti dedicati, tutto per accrescere la notorietà e la credibilità della sua natura di star della rete, sono quelle che oggi conosciamo bene a differenti livelli della comunicazione “tossica” politica e dell’entertainment internazionale e nostrano, dalla “Bestia” a Pamela Prati. Don’t f**k with cats, la mini docu-serie Netflix (3 puntate da circa 60 minuti ciascuna) dedicata a questa escalation di malefatte, non arriva però da subito al metodo-Magnotta escogitato per apparire come un giovane influencer a spasso per i grattacieli del pianeta: il punto di partenza sono, come suggerisce il titolo, le assolute e incontrastate divinità del web – i gattini. L’allora sconosciuto serial killer di cuccioli di gatto si guadagna da subito le attenzioni delle comunità online proprio riprendendo e poi postando i video ad efferatezza progressiva di fantasiose esecuzioni di animaletti: ma se internet è il luogo dove qualunque oscenità e violenza oltre ogni livello di shock è a portata di clic, toccare i gattini non può invece restare impunito. E così il meccanismo del peer network che regola il 2.0 nell’accezione di Steven Johnson si mette in moto e, in una vicenda non meno esemplare del celebre caso dello stolen phone caro a Clay Shirky (si veda il suo cruciale volume Uno per uno, tutti per tutti), gli smanettoni sono in grado di tracciare la provenienza dei video criminali, riconoscere la location e gli elementi della messinscena, infine risalire a Magnotta. È il rovescio della sorveglianza, bellezza, e se è vero che le piattaforme ci spiano, allora è vero anche che là fuori è pieno di dati e informazioni che aspettano solo di essere decifrati. Ovviamente, Luka attende da tutta una vita questo tipo di attenzione, ed è pronto ad alzare la posta, con il suo personale, sanguinoso omaggio al film che è da sempre la sua ossessione, Basic Instinct – ancora una volta, l’immaginario del nostro inconscio popolare universale tracima nella realtà, e non è più possibile realizzare cosa abbia influenzato chi e per primo, se Sharon Stone sia specchio o ispirazione della madre di Magnotta.
In questa maniera, il veterano Mark Lewis (una carriera dedicata a documentari sul rapporto tra uomini, natura, società e animali) traccia con Don’t f**k with cats il ponte forse definitivo tra alcune correnti che reggono la sterminata produzione non-fiction di Netfix, e su cui è facile scommettere si potrà basare l’unicità della piattaforma nell’imminente guerra di proposte e cataloghi tra portali concorrenti e relative abbonamentizzazioni del nostro consumo quotidiano. Ovvero, la passione di Netflix per il genere morboso, da cable TV vecchia scuola, del true crime (delitti più o meno celebri, cold case ancora irrisolti, archivio catodico di arresti, processi, tribunali ecc.), sempre più spesso veicolato attraverso l’intuizione del documentario seriale, assemblato e frammentato cioè con modalità narrative da serialità “adulta”, e il linguaggio spurio e schizofrenico della bassa frequenza user generated, narrazione che insegue l’evanescenza frenetica dei pixel, delle bacheche, delle storie digitalizzate che si muovono dentro i server. Tra interviste ai leader della task force di nerd che incastra Luka Magnotta, brevi flash dei video snuff del killer e l’abituale selva di screenshots che oramai riconosciamo in prodotti di questo tipo, Don’t f**k with cats si prende anche la licenza di farsi in chiusura riflessione spudorata su quanto di questa storia sia stato causato dalla nostra perversa curiosità di spettatori insaziabili di immagini oltre il limite, a partire da chi ha iniziato a seguire da subito le clip dell’esecutore di micetti, fino a noi bingewatcher di questa miniserie.
L’aspetto ancora più inquietante del lotto è però l’accenno all’ennesima teoria cospirazionista che storie come questa si portano puntualmente addosso, qui legata al fantomatico Manny Lopez, complice, mandante e oppressore psichico di Magnotta, mente nascosta dietro tutta la vicenda. Per i giudici che hanno condannato Luka all’ergastolo, Manny è solo una voce nella testa del ragazzo, anch’essa figlia di una distorsione della sinossi di Basic Instinct. Ma il complotto che vuole la responsabilità degli atti dei singoli sempre demandata a élite misteriose o sconosciuti traviatori psichici di cui ci è ignoto il reale obiettivo, è un’altra delle distorsioni a cui la rappresentazione del mondo ospitata dalla rete ci ha abituati (qualcuno ricorderà dalle nostre parti il caso Gemma del Sud…), e che su scala più vasta sappiamo nutrire le macchine mostruose del consenso populista.