Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer
Dahmer, miniserie ricettacolo di tutte le ossessioni di Ryan Murphy, destruttura la figura del serial killer mettendola a confronto col mondo in cui è nata e ha proliferato
Ci sono soprattutto due cose che rendono riconoscibile un prodotto di Ryan Murphy. La prima è il sottotesto politico esplicito, la seconda è una certa sensibilità verso gli emarginati, i freaks, gli invisibili. Non può che essere un ibrido di questi due aspetti – se non la summa intera di una poetica, a metà strada tra American Horror Story e American Crime Story – la nuova miniserie Netflix Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ennesimo tentativo di accostarsi alla figura del tragicamente noto Mostro di Milwaukee.
Privando, almeno in parte, il protagonista (interpretato da Evan Peters, già freak in AHS e presenza ricorrente nel Murphy-verse) dell'aura cui la cultura pop ha da sempre ammantato i serial killer, Murphy, insieme al sodale Ian Brennan, da una parte riporta a una dimensione pateticamente umana il mostro (come aveva già tentato di fare il Marc Meyers di My Friend Dahmer), dall'altra gli affianca un diverso tipo di emarginati e invisibili: le sue vittime. Perché l'America tra la fine degli anni '70 e l'inizio dei '90 è un gorgo di razzismo sistemico e omofobia, bigottismo e negligenza. Una società terrorizzata dall'AIDS e sorda alle rivendicazioni della comunità nera. Il terreno di caccia perfetto, insomma, per uno come Jeff, uomo bianco, borghese, piacente, in grado, senza nemmeno doversene coscientemente rendere conto, di sfruttare questo privilegio a proprio vantaggio. È in questa falla del sistema che il mostro si insinua e prolifera, facendone emergere l'essenza altrettanto mostruosa, quella di una realtà incapace tanto di cogliere i segnali di allarme nei comportamenti del futuro carnefice quanto, soprattutto, di ascoltare le grida di aiuto delle sue vittime.
Sono giovani uomini quasi sempre omosessuali, poveri e per la maggior parte appartenenti a minoranze, del resto, le 17 vittime di Dahmer, invisibili tra gli invisibili, individui senza voce (anche letteralmente, come nel bellissimo sesto episodio) e senza speranza. Dalle richieste d'aiuto inascoltate di famigliari, vicini e sopravvissuti fino ai più clamorosi casi di negligenza da parte delle forze dell'ordine, tutto in Dahmer pare concorrere a dare il ritratto di una società connivente, così incapace di giustificare il sangue sulle proprie mani da favorire persino la narrazione innocua del mostro come Male incarnato, riducendo il tutto a un racconto di Halloween o a una mitizzazione a misura di idioti. Pur concedendosi qualche incursione nell'horror psicologico e d'atmosfera - ma rifiutando categoricamente qualsiasi contaminazione gore o splatter - , la serie entra così nella distorta psicologia del protagonista (ben resa anche visivamente, grazie a registi come Greg Araki e Jennifer Lynch), senza per questo perdere mai di vista il giusto equilibrio tra dimensione pubblica e privata, scavo psicologico e invettiva politica.
Ma chi era veramente Jeffrey Dahmer? Nel corso di dieci episodi Murphy, con un approccio agli antipodi del true crime, indaga il senso profondo di questa domanda. Lo fa attraverso una narrazione frammentaria fatta di continui slittamenti temporali, ridondanze e omissioni, addentrandosi tra le pecche e le storture della situazione famigliare del protagonista, in un'infanzia e un'adolescenza vissute nel segno della repressione e della solitudine, cercando cause, motivi, ragioni impossibili da trovare una volta per tutte. È in questa impossibilità dichiarata di comprendere l'anomalia Dahmer fino in fondo che Murphy vede, però, l'occasione per sviscerarne invece un'altra ben più chiara ed evidente, quella della società in cui il mostro è nato e ha agito indisturbato per più di un decennio.
Come verrà detto esplicitamente nella serie, Dahmer, allora, non è altro che “una metafora di tutti i mali sociali che affliggono la nazione”, un grande affresco corale su un tempo tutt'altro che passato e, al contempo, una riflessione su un immaginario da rifondare, senza più compiacimenti granguignoleschi, psicologie spicce da b movie o assurde romanticizzazioni. Perché il problema, dice il Murphy più didascalico, non è (più) tanto quello di trovare un po' del mostro in noi, ma rendersi conto che mostruoso è lo stesso mondo in cui ci ostiniamo a vivere e morire.