The Umbrella Academy
In attesa di adattare Millarworld, Netflix inaugura il suo filone supereroistico con uno show dalle grandi potenzialità che ribadisce però tutti i limiti delle sue narrazioni seriali.
Coadiuvato dall’esplosivo lavoro grafico di Gabriel Bá, l’ex frontman dei My Chemical Romance Gerald Way dà alle stampe, nel 2007, The Umbrella Academy: La Suite dell’Apocalisse, graphic novel sorprendente che lavora con consapevolezza rara sugli elementi più classici della scrittura supereroistica, portandosi a casa come risultato un importante Eisner Award. La sua Umbrella Academy è una frenetica girandola capace di lavorare con gli elementi più riconoscibili del genere – supercattivi, distruzione del mondo, eroi tormentati dai poteri scomodi – senza perdere mai in originalità e creatività; Way evita l’approccio metalinguistico di Grant Morrison ma guarda alla sua Doom Patrol e a quel modo di rielaborare la tradizione, consapevole che nella superficie del racconto, nell’autoevidenza dei suoi elementi più classici ci sono tutte le potenzialità per costruire una storia appagante con personaggi fragili e complessi. Di stampo opposto si rivela invece il suo adattamento seriale, primo risultato del nuovo percorso supereroistico di Netflix che convergerà sul più complesso e ambizioso lavoro previsto per Millarworld (l’universo del fumettista Mark Millar, di cui la rete streaming ha già annunciato tre film e due serie tv). Infatti, consapevole di quanto fosse difficile traslare il lavoro che Way e Bá hanno fatto sulle forme pop del fumetto, The Umbrella Academy evita ogni confronto formale con l’originale (e con la forma fumetto in generale) esaltando piuttosto la componente famigliare soggiacente, quell’intrico di disfunzionalità e drammi d’infanzia che Way teneva sottotraccia mentre la serie pone al centro dell’operazione.
Una famiglia complessa e vasta, composta da individui paradossali e fuori dalla norma legati da rapporti difficili e irrisolti, se non apertamente traumatici. Questa situazione oggi è divenuta un vero e proprio topos narrativo, ma 60 anni fa era la brillante creazione artistica di Salinger, che con la famiglia Glass ha dato il via a una complessa architettura umana che dai suoi racconti è passata nel tempo per altre mani e altre rielaborazioni biografiche, dai Tenenbaum alle Meyerowitz stories fino, appunto, all’Umbrella Academy, supergruppo di bambini straordinari riuniti dall’eccentrico Sir Reginald Hargreeves, padre adottivo anaffettivo e manipolatorio che ha cercato di trasformare i suoi ragazzi in una squadra speciale distruggendo ogni possibilità di vivere come una famiglia “normale”.
Più che sul tentativo di evitare l’Apocalisse, rimandato alla prossima stagione, la prima tranche di Umbrella Academy si focalizza quindi su questo coacervo irrisolto di traumi e affetti spezzati, e sulla necessità di Luther, Klaus, Allison, Diego e Numero 5 di imparare a convivere con le proprie disfunzionalità per poter costruire una famiglia reale (nella sua anormalità supereroistica). Solo così saranno in grado di riassorbire al loro interno la reietta Vanya, sorella negletta dal potere immenso che solo con l’amore, piuttosto che con la forza e le manipolazioni sotterranee, potrà tornare al suo alveolo, alla sua casa. In modo via via più evidente, tutti gli elementi della stagione convergono su di lei e sulla sua trasformazione nel Violino bianco, in un crescendo di sentimenti infranti e traumi infantili, di riconciliazione e perdono, che è sicuramente il risultato migliore di questa riscrittura seriale. Rispetto all’originale infatti, il personaggio interpretato da Ellen Page acquisisce spessore e consapevolezza, il che rende ben più dolorosa e complessa la sua trasformazione finale, esplosione di un femmineo fino ad allora ritorto su sé stesso, compresso e temuto perché troppo libero e potente per essere gestito.
Il grosso problema è che la serie tenta lo stesso approccio con tutti gli altri personaggi in gioco, anche i più funzionali e in origine schiettamente caricaturali, e fallisce pesantemente; al di fuori di Vanya l’approfondimento psicologico si trasforma in un’espansione narrativa fuori controllo, ipertrofica e banale, che confonde lo spessore con la lungaggine. The Umbrella Academy diventa così il trionfo della “psicologia” intesa come psicologismo spicciolo e incapacità totale di lavorare sulla e con la superficie del racconto: tutto deve essere spiegato, ogni interstizio riempito, come se lo spettatore seriale non fosse più in grado di gestire il non-detto, la suggestione. La grande vittima di quest’appiattimento generalizzato è la forza esplosiva del fumetto originale, ricondotto sui binari di un intrattenimento controllato, normalizzato, accuratamente tarato per una platea che non va mai sorpresa più di tanto, mai presa contropiede, mai portata in territori che non siano altamente confortevoli e familiari. Questa strategia, chiaramente tarata sul mercato ormai mondiale a disposizione di Netflix, ha come conseguenza immediata una dilatazione spropositata dell’arco stagionale, per di più ingolfato da ripetute sequenze action-musicali costruite a tavolino per risultare il più possibile ammiccanti e cult, con il risultato opposto di respingere e annoiare con la loro evidente artificiosità.