American Crime Story - L'assassinio di Gianni Versace
Tra crime e melodramma, con la nuova stagione di ACS Ryan Murphy guarda alla scena gay anni ’90 per raccontare un personaggio misterioso, violento e contraddittorio.
Il 15 luglio del 1997 il giovane omicida Andrew Cunanan uccide a Miami con due colpi di pistola Gianni Versace (e insieme allo stilista anche un colombo bianco che era lì per caso, fosse o meno uno stagionato simbolo di innocenza). La seconda stagione di American Crime Story inizia così. Non poteva essere altrimenti; dato che il sottotitolo è The Assassination of Gianni Versace non si aspetta molto perché si veda il viso di Versace martoriato dai proiettili accanto a un colombo sul tavolo dell’autopsia.
Ryan Murphy ridimensiona ma non elimina il melodramma, una delle sue cifre come autore e showrunner, e lo unisce a importanti dosi di gore. Il fondale – tutt'altro che bidimensionale, quasi un coprotagonista – è la scena gay (gay come maschio cis, tendenzialmente bianco) degli anni ‘90. Non certo una comunità perché di comunità c’è poco, ma semplicemente tante persone sole o in piccoli gruppi che cercano di sopravvivere alla meno peggio, chi con molti, molti soldi (quelli più anziani), chi con niente (quelli più giovani).
Una parte di melodramma era sicuramente necessaria, non tanto per adempiere alla consueta auto/rappresentazione gay (l’elemento operistico – almeno questa volta non c’è la Callas – la discoteca, le marchette) ma soprattutto perché erano i tempi di quel meccanismo perverso del Don’t Ask Don’t Tell in vigore nell’esercito americano nel 1994, due anni prima che Jeff Trail lasciasse l’esercito. L’ovvio oggetto del non-detto era l’omosessualità, soprattutto se associata al fantasma rappresentato dall’onda mortifera di HIV e AIDS, che si aggiungevano a un'omofobia diffusa (anche se a dire il vero non c’è mai stata un’epoca, un decennio, un anno, un mese, in cui la popolazione gay e LBTQI se la sia passata tanto bene, per un motivo o per l’altro). L’inadeguatezza della polizia – sia come dispositivo di controllo e sicurezza che come custode della società eteronormata (cioè in cui la norma morale è quella dell’individuo eterosessuale) – nell’affrontare la relazione tra Versace e il suo compagno viene illustrata con precisione già nella prima puntata, soprattutto nell'incapacità di concepire una relazione sessualmente aperta o qualsiasi tipo di relazione non aderente al modello etero-nucleare.
Da qualche anno Murphy sta contribuendo a una narrativa visuale della popolazione LGBT+ statunitense, non una storia politica del movimento come il quasi contemporaneo When We Rise che ha nel team produttivo Gus Van Sant, ma qualcosa a metà tra il senso di comunità, prima nascosta – closeted – poi davvero out dopo i moti di Stonewall del 1969 e le storie private. Con la seconda stagione di American Crime Story, Murphy prosegue un discorso già iniziato con The Normal Heart (film per la TV a tema HIV/AIDS) e il recentissimo Pose (serie sulla scena del voguing e delle sfide nelle ballroom nella New York di fine ‘80) e lo fa a partire dal posizionamento privilegiato di un maschio gay pienamente inserito nello showbiz.
Al centro della serie ci sono Gianni Versace e Andrew Cunanan ritratti come delle drama queen di primo livello, uno creativo, l’altro letale, mentre l’epopea della famiglia Versace – interpretata inspiegabilmente da ispanofoni con grandi erre e grandi esse (Edgar Ramìrez, Penelope Cruz e Ricky Martin, più l’italiano Giovanni Cirfiera nel ruolo di Santo Versace che però non parla mai) – caratterizzata dai dissidi stilistici tra Gianni e Donatella viene messa in secondo piano, jet-set e supermodel incluse. Prima ancora che per Gianni, la scena è tutta per Cunanan (interpretato da Darren Criss), che se fosse ancora vivo sarebbe sicuramente molto felice di avere una serie simile tutta su di sé. Del resto era un narcisista manipolatore, che nella serie si descrive agli altri e agisce in modo continuamente contraddittorio. Ad esempio dice di essere uno scrittore, di essere figlio di un ricco filippino possidente di piantagioni di ananas, e di una donna italoamericana, ma solo alcune di queste cose vengono confermate. La regia gioca molto sullo scarto tra quello che Cunanan dice e quello che ci viene mostrato, portando spettatori e spettatrici a dubitare costantemente dell'uno e dell'altro, aggiungendo un livello di sfiducia ulteriore alla figura del protagonista ma senza mai condannare ulteriormente l'essere assassino. Questa stagione di ACS rimane in quegli stessi anni ‘90 in cui era ambientata la precedente ma si stacca quindi dal dramma procedurale e dalle riflessioni su potere, razzismo e media che vedevano protagonista O.J. Simpson e avvocati, per concentrarsi sulla genesi della mania omicida del giovane Cunanan senza perdere una visione più ampia o scivolare nel pedagogico.
Cunanan non ha il fascino esotico e morboso dei serial killer (vedi alla voce Ted Bundy as a Sex Symbol) perché serial killer non era. Uccideva quasi a caso, per ripicca, probabilmente mosso dalla frustrazione infantile di non essere più un golden boy semi-onnipotente vezzeggiato da un padre truffatore quanto omofobo e non meno narcisista del figlio. La ricostruzione a ritroso ci mostra un Cunanan fragile e desideroso d’affetto e di conferme, ma anche un uomo che uccide a sangue freddo e con un certo sadismo quattro persone prima di Versace. Il ritratto di un personaggio estremamente complesso, pieno di contraddizioni, che fa convivere fascino e generosità, una grande cultura ma anche una tendenza alla manipolazione del prossimo. Il protagonista di The Assassination of Gianni Versace è anche un personaggio fastidioso e spesso antipatico, con cui è molto difficile empatizzare, perché privo del carisma di altri anti-eroi negativi come Walter White.
Lo storytelling al contrario di Murphy arriva, seppur un po' troppo lentamente (due ore in meno non avrebbero guastato), fino all’infanzia del protagonista, grazie a un penultimo episodio che suggerisce una spiegazione non esplicitamente psicanalitica, ma che vede Cunanan tutt'altro che nei panni del carnefice; non c'è dubbio che questi sia stato una vittima della sua storia, del contesto in cui ha agito e ovviamente di se stesso.
The Assassination of Gianni Versace è un ibrido ben realizzato, che riesce ad essere in parte crime, in parte melodramma, in parte monografia su una personalità ancora misteriosa e quindi facilmente spettacolarizzabile.