Indiana Jones e il fascino discreto dell'archeologia al cinema
La "x" non indica mai il punto dove scavare.
"L'archeologia mi ha insegnato che ogni volta che sveli qualcosa del passato, contribuisci a dare più significato al presente." ("La valle dei Re", Robert Pirosh.1954)
Il fascino dell'archeologia è indiscutibile. Tuttavia se la figura dell'archeologo si è radicata così profondamente nell' immaginario collettivo, al punto da alimentare - fino a distorcere - nella cultura popolare la percezione del suo ruolo e della sua professione, trasformandolo da zelante (e precario) studioso alla prese con cantieri polverosi e frustrazioni burocratiche in un seducente avventuriero alla ricerca compulsiva di nuovi stimoli, tesori sepolti e civiltà scomparse, il merito e la colpa spetta indubbiamente al cinema. E' proprio a partire da questa riflessione che si snoda l'analisi di Francesco Bellu, archeologo e giornalista, nel suo saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo" (2022) da cui sono scaturiti l'ispirazione e il piacere di curare questo articolo. Il libro, pubblicato dalle Edizioni NPE, è un testo appassionante ed estremamente articolato, frutto di un lungo periodo di studio e di ricerca, in cui l'autore si propone di affrontare, contestualizzare e spiegare le ragioni storiche e culturali del legame inscindibile tra cinema e archeologia attraverso gli autori e i generi che lo hanno celebrato. Il tutto molto prima che il nome di Indiana Jones diventasse il paradigma dell'Avventura. Infatti, come analizzato nel saggio, nonostante la prima pellicola con protagonista un archeologo, per la precisione un egittologo interpretato da David W. Griffith, l'autore di Nascita di una Nazione, risalga all'epoca del muto ("The Princess in the Vase", 1908), quello tra il mondo della celluloide e l'archeologia è un rapporto atavico che affonda le radici addirittura in esperienze che oggi definiremo di pre-cinema come le fantasmagorie e i travelogues. Si trattava per lo più di esperimenti pionieristici e proiezioni ante-litteram, concepiti per intrattenere e soddisfare la fascinazione del pubblico europeo nei confronti dell'Oriente "esotico e misterioso", due aggettivi imprescindibili per la narrazione, utilizzati maliziosamente per definire quell' arab romance, dove per arabo ci si riferiva a un indefinito Medio Oriente - da Istanbul fino al Maghreb - popolato di stereotipi: faraoni redivivi, donne lascive e barbari feroci. È bene chiarire che l'esasperazione di questo tipo di descrizioni, a uso e consumo prettamente occidentale, insieme al bagaglio immaginifico di suggestioni avventurose (ed erotiche) che sottintendevano, erano già state ampiamente sfruttate e spettacolarizzate dalla stampa dell'epoca e in un secondo momento dalla letteratura d'appendice, complice la grande diffusione dei diari di viaggio e delle biografie di celebri esploratori: lavori dal carattere mistificatorio, impregnati di narcisismo eroico e spirito autocelebrativo.
Dalla realtà alla finizione cinematografica il passo è stato breve, anche perché l'eco mediatica, la portata storica e la cronaca serrata di scoperte come quella della città "perduta" di Machu Picchu nel 1911 e quella della tomba "maledetta" di Tutankhamon nel 1922 possedevano già in nuce tutti i requisiti necessari per incollare il pubblico davanti al grande schermo. Dell' "egittomania" dilagata in tutto il mondo, dopo l'incredibile ritrovamento di Howard Carter nella Valle dei Re, sono una testimonianza i numerosi mummy's movies prodotti dalla Universal a partire dal immarcescibile cult La Mummia (1932) di Karl Freund, che ricalcava in parte il canovaccio di alcuni film a tema egizio dell'epoca del muto ("The Lure of Egypt", 1915), con una maggiore attenzione all'elemento archeologico, fino ai successivi e decisamente più macabri remake firmati dall'altrettanto celebre casa di produzione inglese Hammer Film che riassumevano al meglio tutti i cliché del genere: sepolcri violati, antiche maledizioni, amori perduti, vendette e resurrezioni.
A questo genere di pellicole, a sfondo sovrannaturale, si affiancarono ben presto, tra gli anni Quaranta e i Sessanta, gli explorers movies: avventure declinate in chiave western e noir, a seconda delle esigenze del copione, il cui leit-motiv ruotava intorno alla ricerca di mitiche capitali sepolte nella giungla o di preziosi manufatti da razziare. Uno degli esempi più vividi in materia è Inferno Verde (1940) di James Whale che univa l'avventura esotica all' esplorazione scientifica. Spesso capitava anche che alcuni di questi lavori consistessero in veri e propri serial proiettati a puntate al cinema e ispirati alle strisce a fumetti più in voga, come Ace Drummond (1936) o Jungle Jim (1948). In molte di queste opere, come sottolineato nel libro di Francesco Bellu, il ruolo dell'archeologo assumeva le sembianze di un avventuriero solitario, pronto ad affrontare con coraggio le avversità, restando coinvolto in situazioni straordinarie ed estremamente coinvolgenti per lo spettatore che comprendevano di solito: fughe rocambolesche, esplosioni, risse e duelli con i nemici. Tutti ingredienti fondamentali dell'intrattenimento che ritroveremo puntualmente amalgamati in pellicole come Gunga Din (1943), Cina, (1943), Il segreto degli Incas (1954), I saccheggiatori del Sole (1953) o addirittura Primula Smith (1941), dove un impavido archeologo si schiera apertamente contro i nazisti. Il prototipo dell'eroe più in voga era quello modellato sul personaggio di Allan Quatermain, il protagonista del romanzo "Le Miniere del Re Salomone". Nato a fine Ottocento dalla penna dello scrittore britannico H.R. Haggard, Quatermain, nonostante non venga mai descritto come un archeologo, ha sempre rappresentato l'esploratore per antonomasia: "temerario, risoluto, poliglotta ma soprattutto benevolo nei confronti delle popolazioni indigene verso le quali si pone sempre in modo paternalista, una caratteristica che oggi risulterebbe quantomeno controversa come la sua vocazione di mercante e cacciatore senza scrupoli" (Bellu) . Le trasposizioni cinematografiche delle sue gesta si sono protratte dal 1937 - in modo altalenante - fino ai giorni nostri, sebbene la più riuscita rimanga tutt'ora quella interpretata da Stewart Granger nella famigerata pellicola del 1950.
Un'interpretazione che non passò di certo inosservata allo sguardo cinefilo di due registi come Steven Spielberg e George Lucas quando, nell'estate del 1977, iniziarono a delineare i tratti salienti di quello che sarebbe diventato uno dei loro personaggi più popolari e amati dal pubblico. Già partire dall'incipit de I Predatori dell'Arca Perduta (1981), attento a non rivelarci subito il viso di Jones, vediamo stagliarsi nella silhouette del protagonista l'impronta di "un'opera di cinema puro, capace di reinventare e rivitalizzare i moduli dell'avventura, tanto da diventare essa stessa un modello imprescindibile a cui rifarsi e con la quale confrontarsi" (Bellu). Spielberg utilizza il passato come un serbatoio di forme, modelli e figure con cui giocare liberamente, aggiornando e omaggiando consapevolmente la grammatica dei vecchi film con cui era cresciuto. Tutto il franchise di Indiana Jones diventa così un pastiche di allusioni, citazioni e riferimenti di natura metatestuale in grado di abbattere i confini tra cultura "alta" e cultura "bassa" al punto da coniugare, allo stesso tempo, il cinema di John Huston ("Il Tesoro della Sierra Madre") con le illustrazioni di Carl Barks ("Zio Paperone e le sette città di Cibola").
Inoltre, la figura di Harrison Ford in giacca di pelle e fedora calato sulla testa ribalta gli stereotipi del cinema muscolare dell'era reganomics, regalandoci un eroe sui generis, tormentato e autoironico, che suscita nello spettatore una simpatia e un affetto immediato e con cui è facile empatizzare e immedesimarsi fin da principio. Lo scheletro narrativo delle sue storie è quello della fabula classica che prevede, come da prassi, la chiamata all'azione, i dubbi, il viaggio vero l'ignoto, l'incontro/scontro con alleati e nemici, la vittoria e il suo ritorno; mentre ad amplificare il fascino delle sue avventure contribuiscono le ambientazioni esotiche e la tensione per la scoperta del "McGuffin": il motore virtuale dell'intrigo, in questo caso il reperto archeologico di turno, intorno a cui si articolano le vicende narrate.
Alla luce di queste osservazioni non era difficile immaginare il successo travolgente che avrebbe ottenuto la saga e di conseguenza il proliferare di una lunga schiera di rip-off ed epigoni prodotti nella speranza di ottenere "fortuna e gloria" sulla scia dell'originale, su tutti Alla ricerca della pietra verde (1984) diretto da Robert Zemeckis. Semmai quello che stupisce è la longevità delle imprese del Dr. Jones che, forte di un'ubiquità mediale fuori dal comune, ha generato nell'arco di quarant'anni ben cinque capitoli da cui sono stati tratti serie tv, videogiochi libri e fumetti. L'ultima avventura in ordine cronologico è "Indiana Jones e il quadrante del destino" di James Mangold - cui è spettato l'onere e l'onore di subentrare a Spielberg - che si è rivelata uno dei blockbuster più attesi di questa stagione cinematografica. Questo dato, insieme alle riflessioni portate avanti nel saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo", conferma come dall'epoca del muto ad oggi il fascino dell'archeologia sul grande schermo sia rimasto pressoché intatto e come, grazie alla sua estrema duttilità e alla varietà di situazioni che lo coinvolgono, la figura dell'archeologo , sebbene coniugata quasi esclusivamente al maschile, sia stata declinata praticamente in ogni accezione possibile: da quella di matrice horror di Padre Merrin né L'Esorcista (1973) o nel nostrano L'etrusco uccide ancora (1972) di Armando Crispino, a quella fantascientifica del personaggio di Cornelius ne Il pianete delle scimmie" (1969) o in Stargate (1994), fino all'improbabile variante action portata alla ribalta da tre interpreti "fuori contesto" come Chuck Norris ("Il tempio di fuoco") , Steven Seagal ("Il vendicatore") e Jackie Chan ("The Myth - Il Risveglio di un eroe"). A questa lista si aggiungono inoltre quegli autori che invece hanno preferito utilizzare l'archeologia come specchio per mostrare le inquietudini umane, è il caso di Roberto Rossellini in Viaggio in Italia (1953) , o come pretesto per raccontare la forza incantatrice del cinema: il Woody Allen de La Rosa Purpurea del Cairo (1985).
D'altronde anche a livello letterario l'archeologia si è dimostrata una fonte costante e inesauribile di metafore da cui hanno attinto autori provenienti dagli ambiti più disparati: pensiamo solamente a Sigmund Freud, Michel Foucault, Italo Calvino o Umberto Eco, per citarne alcuni. La ragione di un tale successo probabilmente è attribuibile al potere evocativo di determinate immagini correlate alla pratica archeologica. Infatti, lo scavo in profondità, la stratificazione del sepolto, la ricerca di ciò che è andato perduto o è stato abbandonato, il ritorno del passato e del represso, il fascino della rovina e il culto della frammentarietà sono tutti concetti - categorie visuali e di pensiero - che possono essere traslati ed esperiti anche nell'interiorità della psiche e nella dimensione filosofica della modernità, come riflessione sulla condizione umana contemporanea. Una condizione in cui, attualmente, il ruolo assunto dalla nostalgia è diventato il sintomo allarmante e patologico di una società incapace di trattare con il tempo e la storia. Naturalmente non parliamo della rimembranza poetica o dell'originario desiderium di ovidiana memoria ma di quella "nostalgia mediale" ripetibile e riproducibile, senza esperienza vissuta o memoria collettiva, che alcuni studiosi hanno argutamente definito un mero "scavo archeologico preconfezionato". Viviamo di fatto nell'epoca della retromania, dove tutti i prodotti culturali che ci circondano - in ogni ambito - traggono forza dal rimpianto o dall'allusione sempre più marcata a messaggi e simboli del passato in base alle strategie economiche di un mercato sempre più aggressivo, come quello del marketing: basta pensare al mondo dell'entertainment hollywoodiano. In quest'ottica non deve stupirci se - paradossalmente - per smascherare e contrastare le insidie della nostalgia della peggior specie - quella revisionista e restaurativa - sia stato richiamato in servizio un ottuagenario Harrison Ford proprio nei panni di Indiana Jones: l'archeologo più celebre e ingombrante del grande schermo, forse l'ultima icona - di certo la più emblematica - del postmodernismo cinematografico degli anni ottanta del novecento. L'unico pronto a ricordarci che "la X non indica mai il punto dove iniziare a scavare".