Crede di soffrire di amnesia, l’Elio Germano di America Latina di Fabio e Damiano D’Innocenzo, in concorso qualche settimana fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Vuoti di memoria che non sa spiegarsi, per quanto cerchi gli appunti sulle pagine dei giorni passati dell’agendina, o faccia qualche ricerca su Google. Nulla riesce ad accendere una luce sulla cantina della sua memoria letteralmente inabissata, sott’acqua. Ecco, se è vero che lo spazio e la forma del cinema del futuro saranno sempre di più quelle del museo, resta allora da chiedersi quale memoria abiterà le stanze di questa cineteca espansa. Anche perché la fruizione museale non necessariamente si ferma agli scantinati (per continuare il parallelismo con il film dei D’Innocenzo) dell’arte, dove riposano i capolavori certificati e archiviati – ma indica costantemente nuove suggestioni, mutazioni “in corso d’opera” (o almeno lo fanno alcuni musei ‘illuminati’ ed irrequieti). Le recenti edizioni veneziane sotto la direzione di Alberto Barbera hanno cercato così di riequilibrare il forte sbilanciamento nei confronti del target riconfigurato secondo la “cinefilia del web” (apertura alle piattaforme, alla serialità e alla guerra dell’awards season) con la ricerca sui linguaggi del futuro (la sezione VR).
Il film più “difficile” del concorso di quest’anno, Reflection di Valentyn Vasyanovych, ci ha ricordato improvvisamente (o oramai inopinatamente?) che ai festival di Cinema si viene a contatto con visioni complesse, spigolose, non riconcilianti, non per forza affini alle logiche aggregative dell’evento (per quanto il main event Dune sia, come tutto Villeneuve, il tentativo impossibile di tenere insieme sensibilità arthouse e muscoli da franchise, autorialità e gift shop – che la megaproduzione griffata-nobilitata sia alla fin fine la vera forma del blockbuster di domani?).
Reflection svela da subito un’anima frontale da panel propria da esposizione contemporanea, una sensibilità da videoinstallazione che può scorrere in loop sul grande muro di un padiglione: se già il precedente Atlantis, ad Orizzonti due edizioni fa, tendeva verso un’immobilità in cui il compito di generare aperture era lasciato alle linee che si muovevano interne al quadro, stavolta Vasyanovych porta alle estreme conseguenze la riflessione sulle profondità possibili di un’immagine bidimensionale ma ultrastratificata, i cui diversi livelli (e modelli) sono davanti a noi e al contempo alle spalle dei personaggi che (ci) guardano. È un film decisivo anche al di là della tematica sull’orrore del recente conflitto russo-ucraino, memorie possibili appunto oggi unicamente come flash subliminali, istantanee immobili che rimangono impresse nell’inconscio d’Europa – ma innanzitutto perché ci pone delle domande sullo stato del mezzo cinematografico: il lavoro interno al quadro, lo scavo sulla superficie dell’immagine, è l’unico confine rimasto (o recuperato/ripensato oggi, in un’epoca di produzione disperata e dispersione assoluta dei pics e delle autorappresentazioni) al cinema “di ricerca”
D’altronde si dice “fermare un’immagine nella memoria”, per esplorarne le coordinate verticali e orizzontali, sino a modificarne le tracce: oggi abbiamo la possibilità di farlo anche direttamente, con le semplici app e l’AR letteralmente a portata di mano delle fotocamere dei nostri smartphone. Capovolgere il senso dello schermo: Yuri Ancarani, che tra gallerie e musei passa la parte principale della propria produzione artistica, si inventa dei portali infradimensionali che attraversano una Venezia anch’essa di reflections nell’incredibile finale “astratto” del suo Atlantide, visto ad Orizzonti 2021. La coda lisergica alla vicenda raccontata dal film, realizzata semplicemente verticalizzando di 90° una sequenza di attraversamento dei canali a filo d’acqua, mentre albeggia sulla laguna e i led rossi e verdi della sfilata di scafi del funerale di un “pilota di barchini” reinventano luci e ombre della città, si trasforma in quella che è verosimilmente la sequenza maggiormente rivelatrice dell’intero festival. In un’opera che è comunque un’ulteriore esperienza “frontale”, a scorrimento (come tutto il Garrone “museale” che poi sistematicamente finisce in esposizione, i mostri del Racconto, le scenografie di Pinocchio…), questa deriva in chiusura riesce nel miracolo di tenere insieme vertigine da visual art, anima espansa da installazione, e filtraggio da stories sui nostri social (quest’ultimo, un linguaggio sempre meno “accessorio”, come ci racconta un film che con Atlantide spartisce più della sola colonna sonora, com’è il sorprendentemente tenero Lovely Boy di Francesco Lettieri, anche lui non a caso proveniente dallo storytelling “extra-cinematografico”, videoclip, visual album ecc).
Quella del footage resta dunque l’unica memoria certificata ancora possibile, come intuiscono due delle visioni più straordinarie della Settimana della Critica, Eles trasportan a morte di Helena Girón e Samuel M. Delgado, e Detours di Ekaterina Selenkina. Nell’irrinunciabile e liberatoria opera extra-large del Concorso, “il filippino di quattro ore” On the Job – The Missing Eight di Erik Matti, l’unica ad avere libertà di movimento è la mdp che gira incessantemente intorno a stanze straripanti di uomini e oggetti, false coreografie di corpi inconsapevoli: un lungo montaggio che segue i diversi monitor di una sorveglianza a circuito chiuso ci ricorda (alla stregua del continuo innalzare e sfondare quinte, platee, loggioni e ribalte con cui Martone imbastisce tutta la giravolta mozzafiato di Qui rido io) appunto come negli interstizi tra i frames abiti ancora la possibilità di una traiettoria più ampia, al di là e al di sopra delle cornici apparenti degli schermi.