Sogni di famiglia – Il cinema di Mike Flanagan
Da dove partire per scoprire il cinema di uno dei registi horror americani più vitali e importanti di oggi.
Nel panorama dell’horror contemporaneo Mike Flanagan è senza dubbio una delle figure più incisive.
In soli otto anni è riuscito a delineare un’idea molto personale di genere che, dall’esordio Absentia fino al successo seriale targato Netflix Hill House, mantiene sempre le stesse caratteristiche. Potremmo infatti considerare la filmografia dell’autore di Salem una vera e propria variazione sui temi della famiglia e del lutto, elementi fondanti di un discorso che parte dal dramma umano, dal vuoto lasciato da una mancanza, dal tentativo della mente di risanare un legame strappato grazie all’aiuto dell’immaginario. Perché per Flanagan prima dell’horror e della trasfigurazione a opera dell’inconscio, ci sono i suoi personaggi, il loro combattere e stare uniti per superare il dolore di una perdita famigliare: il marito Daniel in Absentia, i genitori di Kylie e Tim in Oculus, il piccolo Cody in Somnia, il padre degli Zander in Ouija, la madre Olivia nell’ultimo Hill House.
A dare forza e credibilità alle storie è l’elemento drammatico, la base emotiva su cui l’autore poi colloca la sua sovrastruttura orrorifica. E, trattandosi di famiglia, cosa c’è di più pauroso della Casa? Certo, nulla di nuovo, le quattro mura domestiche sono da sempre il medium preferito dai nostri demoni (interiori), a partire dall’haunted house, l’archetipo per eccellenza della letteratura gotica. Flanagan però è un figlio lynchano, ne segue la lezione sulla percezione soggettiva del tempo e dello spazio, gioca con la meta-narrazione, genera universi dove l’Impero della Mente crea regole perennemente in divenire. Ma lungi dal voler esaurire il discorso e dall’appiccicare al regista l’etichetta a la Lynch, tutt’altro, perché le suggestioni sono molte e l’intratestualità tipica del cinema horror è sempre viva, piena di rimandi, da King a Craven, dal Kubrick a Hooper, senza dimenticare la corrente del J-Horror, tutt’ora tra le influenze più forti. Tuttavia ciò non toglie come già il debutto Absentia richiami i frammenti di INLAND EMPIRE: nella messa in quadro, in certi dialoghi, in parte della colonna sonora, una conferma di quanto il maestro di Missoula sia stato seminale per molti registi contemporanei nel deformare e sovvertire le regole dello sguardo.
Nel cinema di Flanagan a colpire è l’essenzialità della messa in scena che rifugge consapevolmente i virtuosismi della macchina da presa e il ricattatorio jump scare. Sono i personaggi il cardine della rappresentazione, la loro emotività e solitudine, il loro tentativo di creare un legame e trovare un dialogo verso l’altro. Ecco quindi come il soprannaturale sia intimamente legato a essi, senza bisogno di un fuoricampo o di un taglio di montaggio che spaventi con meccanismi artificiosi. Le apparizioni sono davanti a noi, riflessi ipnagogici che sappiamo con certezza dove trovare, punti di riferimento che, proprio per la loro imprevedibile prevedibilità risultano ancora più inquietanti.
Allo stesso tempo Flanagan gioca con la memoria e il rimosso, la usa come matrice per delineare le strutture narrative; come in Oculus, manifesto teorico del suo cinema che sposa in potenza la teoria della fuzzy trace, dove i ricordi si sviluppano su più livelli e da un evento segnante, traumatico, proliferano un insieme di falsi ricordi. È qui che nasce la tensione: l’elemento sovrannaturale è sì destinato ad assumere una forma interpretativa, come spiegazione ultima del conflitto, ma è il sentire dei personaggi l’elemento vitale del cinema di Flanagan, l’incastrarsi nei flashback delle proprie ossessioni, l’indagare l’irrisolto. Più piani coesistono simultaneamente, è un aprirsi continuo di mondi, dove il pensiero (inconscio) è la forza creativa che può dare forma tanto a visioni affascinanti quanto a creature spaventose. Si pensi al piccolo Cody di Somnia, la cui luccicanza notturna materializza sul piano reale i propri sogni/incubi, o alla creatura (IT) di Absentia, che quando si addormenta permette alle sue vittime di fuoriuscire dalle dimensione parallela dove le tiene intrappolate.
Orientarsi nell’universo di Mike Flanagan è però meno complicato di quanto possa sembrare, perché, anche se ci perdiamo dentro scatole cinesi, anche se il passato-presente-futuro alterano lo spazio e convivono come una presenza collettiva, è l’atto d’amore la vera bussola capace di guidarci verso la comprensione dell’altro e la coesistenza con il dolore. Così attraversiamo la sua filmografia e arriviamo a Hill House, dove le coazioni a ripetere, le possessioni tramandate di generazione in generazione, la scomparsa di chi ci sta vicino, può sempre trovare un equilibrio in quello che rimane della famiglia. Perché la famiglia e la casa sono il germe del Male, ma anche quel luogo dentro di noi destinato a ricucire le ferite. Un luogo verso il quale torneremo sempre.