EROTIC THRILLS - Jade
Sottovalutato dalla critica e ignorato dal pubblico, Jade è un grande film sulla maschera e il doppio, attraversato da una costante tensione nervosa tra la verità e la menzogna, realtà e finzione, il campo e il fuori campo, l’immagine videoregistrata e quella filmata.
[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].
Già nel suo formidabile 52 gioca o muori (1986) John Frankenheimer indicava una via, una risposta all’inesorabile discesa delle trame neo-noir dentro i territori del torbido: lo faceva dando vita a uno stile mai così elegante e ricercato, fatto di carrellate, dolly e steadycam, per rimarcare l’abisso (visivo, quindi etico) tra le immagini, tra il film e i videotape pornografici (quando non addirittura snuff) che costituivano l’arma del ricatto nei confronti del protagonista Roy Scheider. Neanche dieci anni più tardi Friedkin sembra ripartire proprio da lì sin dalla sequenza dei titoli di testa, con la macchina da presa che indaga sinuosamente le stanze e i corridoi, i feticci e le fotografie, mentre le urla strazianti della vittima ci raccontano un fuori campo di torture sadiche e uccisioni truculente, fino a quando in cima alle scale non compare lei: la maschera (sulle note di The Mystic’s Dream di Loreena McKennitt, dall’album The Mask and Mirror, appunto), vera protagonista del film, più degli sbirri, dell’indagine e della sensuale Linda Fiorentino, quest’ultima già eletta a femme fatale dell’immaginario neo-noir del decennio grazie al precedente L’ultima seduzione. Le apparenze ingannano…
La maschera e il doppio. Tutto Jade è attraversato da una costante tensione nervosa tra la verità e la menzogna, realtà e finzione, il campo e il fuori campo, l’immagine videoregistrata e quella filmata. La violenza raggiunge vette di sadismo ai limiti del sostenibile, ma di essa vediamo soltanto le conseguenze che sfociano nel gore (i resti del cadavere del miliardario ucciso all’inizio, la testa spappolata del testimone oculare), mai il gesto in sé. Così pure del sesso estremo, il vero motore narrativo del plot, rimangono soltanto alcuni frame estrapolati dai filmati delle videocamere nascoste, mentre l’unica sequenza sul punto di sfociare nell’hard finisce di fatto per soffocare qualsiasi facile istinto voyeuristico.
Come per Frankenheimer, anche per Friedkin il cinema è la risposta. Lo strumento privilegiato per scalfire la superficie delle cose, come l'inquadratura a plongée sulla lacrima che riga il viso di Linda Fiorentino durante il triste (e breve) amplesso con il marito Chazz Palmintieri. È la reazione del regista all’anonimato televisivo degli anni Novanta, dal quale non a caso preleva di peso il protagonista David Caruso (fino a quel momento star della serie NYPD – New York Police Department) per rincorrere e aggirare le aspettative dello spettatore, costantemente chiamato a interrogarsi su cosa stia guardando: soltanto l’autore di Vivere e morire a Los Angeles e Il braccio violento della legge può infatti permettersi un cortocircuito visivo finissimo dirigendo l’ennesimo, straordinario car chase all’altezza del suo nome; con la differenza, però, che stavolta l’inseguimento finisce strozzato e depotenziato nella calca impenetrabile del quartiere cinese. Perché nulla è come sembra.
E in un film dove tutti mentono e hanno una vita segreta, e in cui persino la dark lady alla fine tanto tale non è, si finisce quasi per disinteressarsi agli sviluppi di una trama gialla che sfocia in una soluzione doppia, in barba a qualsiasi principio di verosimiglianza. Quello che interessa a Friedkin (e a noi), come si suol dire, è ben altro. È anche la vivisezione di un mondo alto-borghese, certo, quello agiato e dichiaratamente repubblicano, almeno a giudicare dalle frequentazioni dei personaggi e dalle fotografie che essi espongono in casa (il che è ancora più sorprendente, considerato il regista), lo stesso che fa dell’apparenza perbenista il proprio credo salvo poi abbandonarsi alle nefandezze più inconfessabili. In fin dei conti si parla sempre di sesso, soldi e politica: facile ritrovare in tutto questo molte delle ossessioni che da sempre animano le sceneggiature di Joe Eszterhas, nonostante le numerose modifiche apportate da Friedkin gli abbiano fatto disconoscere il risultato finale (al punto da chiedere di rimuovere il proprio nome dai titoli, inutilmente); ma il cuore di Jade è palesemente e soprattutto nello scarto tra la scrittura e l’immagine, tra quello che viene raccontato e ciò che viene effettivamente messo in scena, nel contrasto tra i desideri morbosi dei personaggi e la fredda nudità senza veli di un cadavere steso sul tavolo dell’obitorio, come sarà poi anche in Eyes Wide Shut (con tutte le differenze del caso, naturalmente). Nell'ideogramma cinese ("giada") inciso su una piccola scatola contenente peli pubici che sta a indicare, appunto, un corpo e una persona; in quella maschera che all’inizio ci guarda priva di espressione, e in noi che guardiamo attraverso essa.
“La prossima volta che facciamo l’amore presentami a Jade...”