Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ventesimo secolo
Un film che, riletto a posteriori, appare opera lucidamente concettuale, capace di fissare gli stilemi della Screwball Comedy ma anche di indagare il cinema come strumento che media e racconta la realtà.
Rileggere oggi un film come Ventesimo secolo può essere l’occasione per porre il seminale film del 1934 di Howard Hawks in una prospettiva tale da amplificare la sua portata simbolica, tematica e linguistica. Non ci si può infatti limitare a vedere in esso solo il prototipo di quella che sarà la screwball comedy, né si può considerare il, pur centratissimo, discorso parodico sul teatro popolare che compie la pellicola come il suo unico nucleo tematico. Da un certo punto di vista, Ventesimo secolo, è anche un film dal passo ambiziosamente teorico, che studia il dialogo tra cinema e teatro a partire da un’inconsapevole teoria dei media che interroga i maggiori statuti comunicativi del suo tempo. È evidente quanto il trauma della crisi del 1929 avesse messo in scacco il modo in cui l’arte aveva processato fino a quel momento la realtà circostante. La crescente, drammatica, complessità della società non poteva più essere contenuta sul palco di uno spettacolo di Broadway, e il cinema, medium giovane caratterizzato da straordinarie potenzialità comunicative, sembrava lo strumento più adatto per leggere il reale in tutte le sue sfumature. Ventesimo secolo, in filigrana alla storia dell’impresario Oscar Jaffe e dei suoi tentativi di ingaggiare l’ex moglie, affermata star del cinema, per tornare al successo, sviluppa dunque un lucido confronto di due sistemi spettacolari colti in divenire.
Così le immagini di Hawks catturano le crepe nel disegno generale del teatro di Broadway, prefigurandone la necessità di un restauro semantico, e si confrontano con il cinema negli attimi in cui esso acquisisce una consapevolezza del proprio potenziale; un clash talmente urgente, questo, che finisce per esondare nel piano del profilmico: non è in effetti casuale che il ruolo di Jaffe sia affidato al divo decaduto del teatro John Barrymore e che Lily Garland sia interpretata da Carol Lombard, forse l’attrice del futuro per il modo in cui assocerà il suo nome proprio alle screwball comedy.
Ma la dimensione del confronto è soprattutto linguistica. Da questo punto di vista, non è difficile ritrovare nella velocità, nell’aggressività giocosa della screwball, elementi sintattici vicini alla violenza visiva e al sensazionalismo del cinema delle origini, che la regia ricostruisce e riordina per riflettere sulla stessa sintassi cinematografica. Perché con Ventesimo secolo Hawks porta avanti la sua ricerca sullo specifico cinematografico, un insieme di tratti che decretano l’unicità e la superiorità del cinema rispetto al teatro e che in particolare, per il regista, fanno probabilmente capo al dinamismo che caratterizza i segni su cui si struttura il film e al loro movimento continuo, concreto e simbolico, sulla scena.
Lo scontro tra linguaggi viene posto al centro di una movimentazione già nelle prime sequenze del film. La pellicola inizia infatti in un’atmosfera da melò, confermando la cornice teatrale della rappresentazione ma al contempo minandone le fondamenta attraverso la velocità dei dialoghi, una struttura sovversiva rispetto alla chiarezza di lettura e comprensione del teatro tradizionale. Lentamente, il sistema si apre su sempre più evidenti voragini di non senso, indicazioni evidenti della necessità di un ripensamento delle sue coordinate essenziali; lo stesso personaggio di John Barrymore, se da un lato rafforza la natura istrionica dell’attore, cede più volte alla parodia, e non è casuale che proprio a Oscar Jaffe sia demandata la simbolica distruzione del teatro che chiude il primo atto.
In questo senso il treno preso da Jaffe per sfuggire ai suoi creditori (chiamato appunto Ventesimo secolo) è una perfetta eterotopia foucultiana, uno spazio in continuo movimento, attraverso cui Hawks può studiare e spingere all’eccesso il dinamismo dello specifico cinematografico. Il racconto assume dunque un passo carnevalesco, costruendosi attorno a uno stato d’eccezione in cui le convenzioni sceniche si ribaltano, portando tutti gli elementi in gioco a esorbitare dal quadro.
Sul treno il nucleo narrativo si sviluppa fino ad attraversare, come una scheggia impazzita, tutte le sfumature del teatro popolare, dal melò alla farsa, organizzando una narrazione che è al contempo trionfo del travestitismo e occasione perfetta per portare gli attori a esondare dai loro ruoli, a modificare la loro voce, a lanciarsi in coraggiosi scarti tonali in un continuo overacting. Al contempo, l’azione a bordo moltiplica esponenzialmente le quinte teatrali, e il linguaggio filmico opta, tra primissimi piani e scavalcamenti di campo, per soluzioni possibili forse solo grazie agli strumenti legati alla dimensione cinematografica.
Lo stesso “a parte” si frammenta e si trasforma in un continuo gioco di riferimenti con lo spettatore, grazie a personaggi che citano altri film, altre opere, coscienti di trovarsi in un flusso di segni in costante movimento. Del teatro popolare, sul Ventesimo secolo, rimangono solo i detriti, come quel «I’m going into action» pronunciato da Oscar prima di irrompere nello scompartimento della sua ex, o l’iper-tradizionalista Passion Play che il protagonista è convinto possa essere l’opera che lo rilancerà nell’empireo dello show business.
Con il tempo i personaggi si ritrovano in un mondo cambiato, un contesto che li porta ad ammettere a loro stessi che non sono altro che litographs, che il teatro non ha insegnato loro in alcun modo a leggere la realtà. Colpisce, a questo proposito, quanto il film si concluda con la proposta di un progetto teorico, una sorta di teatro cinetico, sintesi perfetta tra due linguaggi agli antipodi che si coagulano nel tentativo di aggiornare un intero sistema di segni. Non a caso, il racconto della Passion Play che Lily fa a Oscar è amplificato dalle immagini mentali create e raccontate dalla donna, in una performance paradossalmente tutta fuori-scena e proprio per questo profondamente antiscenica se letta dal punto di vista teatrale.
Nelle ultime sequenze, come in una Ringkomposition, tutto sembra tornare apparentemente come prima e, nel mondo reale, Hawks migrerà verso altri generi, verso altro cinema, prima di tornare alla screwball, eppure Ventesimo secolo è rimasto come una sorta di pietra miliare non solo di un intero genere ma anche di uno dei primi dialoghi concreti tra autorialità e approccio concettuale al medium, un progetto attraverso cui Hawks ha provato a utilizzare il suo stile per interrogare per la prima volta il cinema su limiti e potenzialità della rappresentazione.