Cities of Last Things

di Wi Ding Ho

Vincitore del Platform Prize a Toronto e distribuito da Netflix, il film del malesiano Wi Ding Ho è un racconto a ritroso dove il senso della perdita riecheggia nelle tre fasi della vita di un uomo: storia in tre episodi dove ogni incontro è già un abbraccio spezzato.

cities of last things - recensione film ding ho

Tempus edax rerum. «Il tempo divora tutto», a voler restituire fedelmente la locuzione delle Metamorfosi di Ovidio. «Il tempo distrugge tutto», per dirla invece alla Gaspar Noé. Non è trascurabile che sia stato proprio un cineasta a optare per una traduzione più ficcante in termini cinematografici. Ri-costruire una storia, dotarla di senso, significa anche distruggere i presenti che la compongono, trasformarli in passati fuori dal tempo. Il montaggio dipana i suoi nodi focali, come macerie restituite al discorso. Cose che finiscono. Cose già finite. Irreversibili. Cities of Last Things del malese Wi Ding Ho, autore di quattro commedie tra Cina, Malesia, Taiwan mai giunte nel nostro Paese e ora approdato tra le file distributive a firma Netflix, sembra solcare la flagranza della lezione pasoliniana. Un uomo malinconico si aggira in una città futuristica, fa visita alla figlia, commette una serie di omicidi, si suicida. L’uomo è morto, la sua storia conclusa. Solo ora possiamo cercare di scoprire chi fosse veramente. La morte può compiere il montaggio della sua vita. Ecco allora che il “nastro” viene riavvolto. Torniamo indietro, selezionando i tasselli esistenziali che ci hanno portato a questo misterioso epilogo-incipit.

Come Irreversibile ma soprattutto come Peppermint Candy di Lee Chang-dong – anche nel film coreano si parte dal suicidio di un uomo per ripercorrerne la vita – Cities of Last Things procede a ritroso. In tre tappe fondamentali viene raccontata la vita di Zhang, dalla senilità all’adolescenza. Nel primo episodio ci troviamo nel 2049 – e nella città immaginata da Ding Ho si affacciano suggestioni provenienti da Blade Runner. Zhang è un uomo disperato, incastrato da un matrimonio fallimentare con una donna di cui è molto geloso. In un impeto d’ira, il protagonista uccide sia la consorte che il rispettivo amante, dopo aver assassinato un esponente politico ricoverato in ospedale. Dunque, si toglie la vita. Nel secondo, il giovane e ligio poliziotto Zhang scopre il tradimento della moglie con un suo superiore (l’uomo ucciso in ospedale nel primo capitolo). Una breve ma intensa fuga d’amore con una ragazza occidentale sembra aprire lo spiraglio a una speranza subito frustrata dalla violenza del sistema in cui Zhang si ritrova. L’uomo subisce le ripercussioni del corpo di polizia contro cui ha tentato la ribellione ed è costretto al carcere. L’ultimo scorcio ci porta infine al trauma che più di tutti ha segnato la vita di Zhang: la perdita della madre il giorno stesso in cui il protagonista l’ha conosciuta e ripudiata in un commissariato. Non c’è tempo per un contatto, un abbraccio salvifico, un’agnizione che possa redimere il tracciato di una vita durissima. No. Resta solo il rimorso, subitaneo e inestinguibile. Sui titoli di coda poi, un quarto e breve frammento chiude la storia con una scena d’infanzia priva di dialoghi, unico momento di vera felicità: Zhang bambino che gioca con la zia. Scena che, come l’ultima bucolica immagine della Bellucci in Irreversibile, conclude un ciclo che passa dalle tenebre alla luce, ma che in realtà getta, con la consapevolezza del pensiero retroattivo, un’ombra ancora più densa pure su quell’unico momento di spensieratezza.   

Cose già finite, appunto. Ogni episodio fotografa l’occasione di un contatto appena accennato e subito reciso, il reiterarsi di occasioni mancate per sempre (con la figlia, con l’amante e infine con la madre) che fanno riecheggiare il senso della perdita tra le pieghe del tempo. A differenza di Pappermint Candy, dove la Storia si intreccia alla storia, Wi Ding Ho si concentra sulla dimensione intima dei personaggi. Non parla dei grandi eventi della sua epoca né compone una mappatura storica del proprio Paese (del resto non ci sono precisi riferimenti spaziali), lasciando sullo sfondo un contesto sociale su cui la riflessione si fa più implicita ma comunque determinante. Il contrasto tra una società arida che sospinge a un impoverimento morale e affettivo e il disperato bisogno di stabilire un contatto umano sembra fare riferimento a una cornice globale piuttosto che a una situazione localizzata. In questa prospettiva, – nonostante la paura diffusa tra il popolo taiwanese per il ritorno a una dimensione totalitaria –, andrebbe riconsiderata anche la deriva distopica della prima sequenza temporale. Quel che conta di più è, in definitiva, la geografia dei sentimenti e la temporalità del vissuto interiore, riflessione quest’ultima che il regista affida all’uso del montaggio, a differenza di uno specialista del piano-sequenza come Hou Hsiao-hsien.  

Se il ricorso a una narrazione a ritroso – tutt’altro che orientata a uno scardinamento temporale post-moderno ma anzi diretta alla necessità di una ricomposizione lineare – non è nuovo, Cities of Last Things si segnala però per la peculiarità di utilizzare un genere diverso per ogni episodio: la fantascienza distopica per il primo, il noir per il secondo e il melodramma per il terzo. L’espediente non è fine a sé stesso ma mostra come a differenti fasi della vita corrispondano identità differenti, ognuna prodotta da scelte e azioni precedenti eppure estranee tra loro. Si instaura così una dialettica funzionale tra la linearità dei nessi causa-effetto e la discontinuità costituiva di ciascun processo di formazione umano, frutto di una continuità che procede per fratture, – spesso molto traumatiche.
Se però Cities of Last Things convince meno su un fronte ciò accade proprio laddove invece dovrebbe trovare i suoi punti di forza, nella capacità di creare un forte legame empatico con lo spettatore. Non sempre la portata emotiva che gli episodi vorrebbero suscitare riesce veramente ad arrivare e pure nell’ultimo episodio, che dovrebbe costituire l’apice sentimentale del film e il momento di massima tensione, sembra palpabile uno sbilanciamento tra intenti e risultati.

Autore: Riccardo Bellini
Pubblicato il 24/06/2020
Cina, Francia, Taiwan, USA 2018
Regia: Wi Ding Ho
Durata: 106 minuti

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