99 Homes
Rahmin Bahrani è abilissimo nel nobilitare una certa dose di convenzionalità con un rigoroso e vivace classicismo. Un'opera di denuncia civile, appassionata, onesta, recitata benissimo
Esempio onesto e solido di cinema impegnato, 99 Homes è un film speso e pensato senza mezzi termini sul territorio della lotta civile.
Presentato in Concorso a Venezia 71 e disponibile da pochi giorni su Netflix (cosa che segna un precedente distributivo estremamente interessante), il film di Ramin Bahrani si concentra infatti sulla prassi disumanizzante dello sfratto e delle sue conseguenze umane ancor prima che economiche e sociali: Michael Shannon è Rick Carver, paladino dell’esproprio che lavora per il governo degli Stati Uniti d’America e ha imparato a farsi scudo con la propria corazza per resistere alle lusinghe dell’indulgenza e del sentimentalismo. Un giustiziere senza scrupoli che non vuole affondare su nessun tipo di arca ed è pronto a tutto pur di rimanere a galla. Andrew Garfield veste invece i panni di Danny Nash, giovane operaio tuttofare che si ritrova senza un tetto sulla testa ma che per una serie di circostanze finirà con lo stringere un rapporto intrinseco sotto il profilo lavorativo proprio con colui che l’ha cacciato via da casa. Una relazione che per Nash diventa un percorso di iniziazione prima alla pratica dello sfratto e poi all’esercizio del crimine vero e proprio, secondo le rigide logiche di un meccanismo inarrestabile, in cui il gioco sporco per sopravvivere e arricchirsi sulle sofferenze degli altri non fa che chiamare a sé violazioni su violazioni e misfatti su misfatti.
Il film di Bahrani non è esente, è bene chiarirlo fin da subito, da snodi prevedibili, situazioni risapute, perfino da direzioni di sceneggiatura un po’ forzate, che suonano fin troppo funzionali a un esito narrativo altrettanto scontato. La nuova opera del regista di origini iraniane in parte bissa, insomma, l’assenza di complessità e la messa a fuoco non troppo sfaccettata di un ambiente sociale proletario (o poco più che tale) che era presente in termini non molto diversi anche nel suo precedente At any price, in Concorso a Venezia due anni fa. Ma allo stesso tempo va ben oltre, perché riesce a suonare queste note perfettamente intuibili con un tono risoluto e appassionato, che dà al film la forza per sollevarsi in volo dalle paludi e dalle ingenuità entro cui una certa critica armata di bilancino vorrebbe confinarlo e condannarlo. A cominciare dalla dialettica tra i due personaggi principali, incarnati in modo magnetico dagli interpreti e legati da una relazione faustiana e densa d’ombre che rispecchia come meglio non si potrebbe la natura seduttiva e vorace del sogno americano più vero, quello meno favolistico e idilliaco: alla base dell’ingordigia di Nash c’è infatti l’orizzonte di possibilità che dal nulla gli si prospetta dinanzi agli occhi, il soddisfacimento massimo nella terra dell’opportunità. La dolorosa bellezza del film sta tutta nel congegno avvincente con cui tale dinamica è vissuta sulla pelle dello spettatore: riprese frenetiche, nessun patetismo appiccicato alle vicende dei più deboli (neanche nei momenti al limite), il giusto approccio convulso ai momenti di maggiore slancio emotivo del racconto. Senso di attesa, empatia, gelo, tutto ben dosato, tutto calibrato nel modo migliore.
Domina dunque una forma illuminata di classicità, guidata dal rigore e dalla limpidezza dello sguardo, senza raggiri verso lo spettatore ma piuttosto con una secchezza che lascia soddisfatti e desta coinvolgimento e passione. Non un film buonista o furbescamente d’impegno e neanche un’opera giustizialista, 99 Homes di Rahmin Bahrani. E nemmeno un pamphlet, ma un film mirabilmente scritto in cui molti dialoghi sferzanti e taglienti come un rasoio sono meravigliosamente incastrati dentro l’incedere del film, dettandone l’andamento ed evidenziandone la disincantata ed ispiratissima tensione civile. Che la sceneggiatura porti poi la firma di Amir Naderi è un assoluto valore aggiunto: la sensazione è che il regista abbia riversato dentro un film comunque mainstream la totalità delle sue potenti e nient’affatto accomodanti considerazioni sul sistema America e le sue sfiancanti contraddizioni. Ripensare a certi suoi imprescindibili lavori, come Manhattan by Numbers e Vegas: Based on a True Story, per ritrovarvi la stessa rabbia.