Backcountry
Adam MacDonald dirige un survival drama cinico, violento e beffardo, che mette a nudo, senza eroismi ed artifici, i limiti e le incongruenze del sogno americano fondato sul mito positivista della natura selvaggia ed incontaminata
C’è un silenzio maestoso che sovrasta costantemente il suggestivo paesaggio di Backcountry, l’esordio cinematografico di Adam MacDonald. Un paesaggio apparentemente privo di qualsiasi segno di vita o di movimento, al punto da ispirare un profondo senso di disagio nello spettatore di fronte alle sterminate foreste di conifere del Canada immortalate dalla cinepresa. Tuttavia, ad un certo punto, sembra quasi di percepire che da quel paesaggio idilliaco trapeli una specie di risata sommessa, che irride i futili battibecchi della giovane coppia protagonista della pellicola. E’ la risata sardonica della natura selvaggia, pronta a tradursi nel bramito agghiacciante di un orso totemico per rammentare all’uomo l’incombere minaccioso di un destino ineluttabile di morte e disperazione. Tratto da una storia vera, e opportunamente romanzato, Backcountry è la cronaca feroce dell’angosciante odissea - finita in tragedia - di due fidanzati che per sanare le proprie divergenze interpersonali si allontanano durante il weekend dal caos cittadino per rifugiarsi nella pace fittizia di un'oasi naturale, incorniciata tra le montagne canadesi, dove scopriranno - a loro spese - che la natura che li circonda non è affatto benevola come lo scenario da cartolina che avevano sognato. Fin dalla prima inquadratura, oscurata dal ronzio delle mosche, si intuisce che è un viaggio di sola andata verso l’ignoto, e lo capiamo non appena Alex (Jeff Roop) e Jenn (Missy Peregrim) abbandonano la loro macchina per lasciarsi traghettare da una canoa in balia della corrente nel “cuore di tenebra” della foresta primordiale. Il campeggio è semplicemente il pretesto iniziale per raccontare il percorso solitario di una coppia che va lentamente alla deriva, depistata da dubbi, insicurezze ed equivoci che logorano la relazione lungo tutto il corso del tragitto, esasperata da un lato dalla presenza (in)visibile del plantigrado che segue le loro tracce; dall’altra dall’inettitudine di Alex: un uomo che sta cercando di impressionare la donna che ama, sfidando la natura impervia – personificata dall’orso - in una contesa testosteronica che lo umilia e lo spaventa ad ogni passo, mettendo in crisi la sua virilità fino a dilaniarla senza alcuna reticenza. Per il suo debutto alla regia l’autore canadese sceglie di seguire - a debita distanza - il solco tracciato prima di lui da John Boorman (Deliverance, 1972) e Werner Herzog (The Grizzly Man, 2004), dirigendo un survival drama cinico, violento e beffardo, che mette a nudo, senza eroismi ed artifici, i limiti e le incongruenze del sogno americano legato al mito “positivista” della natura incontaminata: la cosiddetta Great American Wilderness, professata da Thoreau nel suo celebre libro Vita nei Boschi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare però quella documentata da MacDonald non è una natura crudele o vendicativa ma solo spietatamente indifferente, come lo sguardo vuoto ed impietoso del simbolico predatore che bracca da lontano i due incauti escursionisti, mosso unicamente dal suo inestinguibile istinto di sopravvivenza che lo spinge a sfamarsi. Soltanto in questa prospettiva è possibile cogliere ed apprezzare il valore effettivo del film, perché Backcountry non è un eco-vengeance convenzionale, dove la bestia di turno aggredisce le sue prede per ristabilire una sorta di equilibrio pre-esistente, né tanto meno l’aggressione è l’avvisaglia di un evento apocalittico imminente. Dietro lo scontro che insanguina i panorami dell’Ontario si nasconde in realtà una riflessione sulla fragilità dell’animo umano, su come sia sottile il diaframma posto dalla civiltà alle sue caratteristiche originarie e su come sia facile spazzare via i labili paraventi sociali una volta sradicati dal proprio contesto abituale. Come per Open Water – l’horror subacqueo di Chris Kentis – anche in questo caso la forza dell’orrore tratteggiato dal regista, con i suoi ritmi esasperati ed inesorabili, consiste nel ragionare per sottrazione, nel saper centellinare la suspence, per porre l’accento sullo spaesamento dei suoi protagonisti, separati a forza dal loro habitat naturale, senza mappe e senza indicazioni, preda degli istinti più bassi, immersi in un’area remota attorno a cui si coagulano le immagini di una natura governata da una logica ferina. Quella stessa logica secondo cui il bosco e il suo sovrano incontrastato – l’orso sacro ai nativi americani- tornano ad assumere le connotazioni inquietanti di una tradizione ancestrale, quella dei racconti scolpiti sulla roccia o sussurrati attorno al focolare. Infatti il mondo di Backcountry non è quello virtuale che abbiamo imparato ad addomesticare sulle cartine geografiche ma un universo brutale e impenetrabile, dove il tempo è scandito da avventure primitive e da prove disumane, uno spazio estraneo ed ostile in cui ci si smarrisce impauriti e si vaga coraggiosamente a tastoni per non sprofondare nel buio dell’irrazionale. Una paura atavica che Adam MacDonald testimonia di essere riuscito puntualmente a catturare su pellicola grazie ad un esordio che lascia ben sperare.