Way Act and the Wind

In Way Act and the Wind si mostra la singolarità che si nasconde dietro l’impersonalità di ogni immagine.

Di cosa parliamo, quando parliamo di cinema? Guardando Way Act and the Wind non si può fare a meno di pensare, da un punto di vista critico, quanto la scrittura sia autoreferenziale. In fondo quando scriviamo parliamo sempre di noi stessi, della nostra visione del mondo, delle passioni, dei ricordi, delle fantasie, ovvero di tutto ciò che ci appartiene intimamente e che ci definisce. L’immagine non è che un pre-testo, uno specchio opaco nel quale proiettiamo la parte più segreta di noi. Allo stesso modo la scrittura non può che essere un riflesso, più o meno volontario, della nostra personalità, che trasliamo in un testo svelando la nostra abilità analitica e di scrittura, i nostri aggettivi ricorrenti, le nostre ossessioni (che siano la morte, l’amore, la struttura, poco importa). Con questo non si vuole negare l’importanza del gesto critico, sempre utile, sia per chi scrive sia per chi legge, nel suggerire delle ipotesi, delle idee, dei percorsi (come però nota l’ultimo Hong Sang Soo sempre e comunque provvisori). Si tratta, semmai, di sottrarre l’immagine e l’elaborazione critica che ne deriva, da qualsiasi pretesa di esattezza scientifica. La scienza appartiene piuttosto al mondo delle macchine, può descrive il loro funzionamento ma non potrà mai svelare fino in fondo cosa si cela dietro l’immagine. Perché l’immagine, nel momento in cui è prodotta dall’automatismo della macchina, è destinata a vivere una vita autonoma ed indipendente, definita, esclusivamente, dal rapporto e dall’alchimia che si crea con lo sguardo del soggetto. Il cinema racconta sempre la stessa storia, quella dell’incontro tra l’immagine e lo spettatore. Un incontro antico e allo stesso tempo sempre nuovo, che si rinnova ogni volta che entriamo in una sala. Un incontro a volte condiviso, come può esserlo un’esperienza comune, ancora una volta l’amore, il dolore, la morte, ma sempre irrimediabilmente soggettivo, perché investe il perimetro delle nostre emozioni. Non ci si deve stupire quindi delle ingenuità che limitano (inevitabilmente?) il nuovo lavoro del regista brasiliano Marcelo Masagão, film composto solo da altre immagini (ma non da immagini altre). In questa impresa titanica, e allo stesso tempo fallimentare, il regista assembla in un unico corpo immagini provenienti da ogni epoca e paese, senza però seguire un percorso coerente. La struttura è definita da tappe e aree tematiche (il contatto, il viaggio, il volto, le sfere, ecc..) che si accumulano una dopo l’altra fino ad approdare alle prime immagini della storia dell’uomo, ovvero quelle dei disegni nelle caverne filmate da Werner Herzog in Cave of Forgotten Dreams. E’ possibile leggere in questa così come in altre scelte l’intenzione di tracciare un itinerario che abbracci l’intera storia del cinema, dalle sue origini fino ad oggi, e al contempo le tante declinazioni dell\'immagine (l’immagine-affezione, l’immagine-documento, l’immagine-memoria, l’immagine-contatto, l’immagine-cervello, l’immagine-fantasma, ecc..), ma a prevalere sembra essere piuttosto la personalità del regista/montatore, che ritroviamo in ogni scelta di montaggio, in ogni taglio o accostamento. Potremmo sprecare fiumi di parole per criticare le scelte dell’autore, interrogandoci, ad esempio, sull’assenza di tanti grandi cineasti che hanno fatto la storia del cinema, da Dreyer a Bresson, ma non avrebbe molto senso. Perché le immagini di Way Act and the Wind appartengono al regno della soggettività, ovvero alla memoria e al vissuto del regista. Una memoria, tra l’altro, molto netta, precisa, per certi versi elementare, senza dissolvenze incrociate né sovrimpressioni. Dietro ogni immagine si cela una storia, un aneddoto, un ricordo che non potremo mai comprendere. Allo spettatore è chiesto, semmai, di stare al gioco, di abbandonarsi al flusso visivo, di proiettare su quelle stesse immagini i propri sentimenti e le proprie emozioni, accogliendo, con lo stupore della prima volta, l’affiorare improvviso di uno sguardo, di un viso, di un bacio, di una carezza. L’intuizione del regista, non si comprende quanto volontaria, è di mostrare la singolarità che si nasconde dietro l’impersonalità del cinema. Mentre vediamo scorrere le immagini non possiamo fare a meno di pensare a noi, ai ricordi che quei frammenti attivano nella nostra memoria, e poi a quali scelte avremmo operato se ci fossimo trovati dalla parte del regista. Quali film avremmo scelto? Come li avremmo legati insieme? Un gioco che potrebbe andare avanti all’infinito e che, in fondo, non facciamo che rinnovare nella nostra vita quotidiana e soprattutto quando mettiamo piede, una volta ancora, in una sala cinematografica. Ogni spettatore ha il suo atlante sentimentale del cinema - per riprendere una felice definizione di Donatello Fumarola e Alberto Momo -, una cartografia dei sentimenti dai confini fluidi e sempre soggettiva, anche quando si incrocia o si sovrappone con quella degli altri. Quando parliamo di cinema non facciamo che ricordar(ce)lo tutte le volte.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 18/10/2014

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