The American Nightmare
Il passaggio dall’American Dream all’American Nightmare e la nascita del New Horror in un documentario di grande impatto, con molti pregi tattici, ma strategicamente incompiuto.
2 ottobre 1968, Fulton Theatre di Pittsburgh: la prima proiezione de La notte dei morti viventi di George Andrew Romero segna irreversibilmente, e inconsapevolmente al principio, il punto di non ritorno e l’inizio di una nuova era per l’horror americano (e non solo), che si libera, in un colpo solo, dei lacci e lacciuoli della sua splendida, anche se ormai sorpassata, tradizione prevalentemente gotico-letteraria, per rivelare un paese calato in un presente nebuloso e proiettato verso un futuro, più o meno prossimo, che assume i connotati dell’incubo a occhi aperti, della distopia che uccide l’utopica “nascita di una nazione”. Dall’American Dream all’American Nightmare, appunto.
Il ’68 è, come noto, anno cruciale di (propensione al) cambiamento, del convergere di giovani e nuove energie – in ogni parte del globo, nei modi e contesti più disparati – verso il superamento delle arcaiche logiche di potere, del consolidato sistema valoriale di un mondo in declino e obsoleto, per affermare la necessità di una trasformazione radicale dei paradigmi di riferimento e dei processi che li innescano. Come poi la storia ha brutalmente rivelato, i sogni di rinnovamento si sono trasformati nell’incubo della perpetuazione dello status quo, l’utopia è divenuta, come si diceva, distopia. Il Sessantotto negli USA è ben calato in questo orizzonte, nel quale l’idea del Nuovo Sogno Americano, propugnato dalle giovani generazioni di allora e proteso a spodestare il vecchio American Dream, si infrange sull’ottusità di un apparato di conservazione del potere che si rivela sordo e cieco verso qualsiasi revisione o rinnovamento.
Già a partire dalla prima metà degli anni ’60 i giovani americani sperimentano l’agitarsi di oscure forze nel cuore della Grande Nazione: l’assassinio dei fratelli Kennedy (1963 e 1968), quello di Martin Luther King (1968), l’inizio ufficiale della guerra del Vietnam (1965), oltre al protrarsi della guerra fredda (con o senza “disgelo”) sono solo alcune delle punte di un iceberg profondo e refrattario allo scioglimento, i sintomi di un malessere che sembra prossimo a tracimare, inondando le strade e anche gli schermi dei cinema. Il New Horror americano, già a partire dall’esordio di Romero, legge il presente e vaticina il futuro con lucidità impareggiabile, individuando l’impossibilità di una svolta storica decisiva per un paese che, ebbro di sé, ha iniziato letteralmente a divorare se stesso. L’unica via rimasta al cinema, horror e non, è quella di fare a pezzi i racconti autoassolutori e autoreferenziali, quindi falsificanti, di una nazione incapace di specchiarsi senza distogliere lo sguardo (un riflesso privo di riflessione), per creare ex novo altri e alternativi racconti, che assumono le sembianze distorte, ma veridiche, dell’incubo.
The American Nightmare di Adam Simon viene realizzato allo scoccare del nuovo millennio, con lo scopo ambizioso – e solo parzialmente riuscito, come vedremo – di mappare i disturbanti territori della new wave horror a stelle e strisce, tramite il coinvolgimento diretto dei grandi nomi di quella irripetibile stagione cinematografica, per documentare e analizzare le origini della loro opera attraverso interviste, filmati d’epoca e soprattutto immagini di alcuni dei loro film seminali. TAN si avvale quindi del contributo diretto di George Romero, Wes Craven, John Carpenter, David Cronenberg, Tobe Hooper, oltre a John Landis e Tom Savini, mentre l’analisi socio-antropologica e storica, più che marcatamente filmica, del fenomeno della new wave è lasciata a tre docenti universitari, Tom Gunnings, Carol Clover e Adam Lowenstein, esperti e soprattutto appassionati di horror.
La struttura del lavoro di Simon – altrove cineasta ordinario, ma a suo agio in un contesto più di puro découpage che squisitamente registico, com’è quello di TAN – consta di quattro direttrici di senso principali, due visuali (immagini filmiche e immagini di repertorio) e due verbali (dichiarazioni degli autori, dichiarazioni degli studiosi), che si amalgamano attorno al baricentro costituito da cinque pellicole fondamentali, tutte comprese fra il 1968 e il 1978: La notte dei morti viventi, L’ultima casa a sinistra (1972), Non aprite quella porta (1974), Il demone sotto la pelle (1975), Zombi (1978).
Una terza componente visuale è costituita dalle immagini riprese in “diretta” appositamente per il film, in cui compaiono di persona gli intervistati o in cui si vede più volte un cimitero, verosimilmente quello in cui venne girato l’incipit di Night of the Living Dead, un luogo simbolico, quindi, a più livelli. In più, trattandosi di un lavoro documentario a largo raggio sul cinema horror americano moderno, non mancano brevi riferimenti iconici ad altre pellicole essenziali, come Halloween (1978), La città verrà distrutta all’alba (1973), Rabid (1977), The Brood (1979) e svariate altre. A scandire la progressione del senso, nel lavoro di Simon, contribuisce la scelta di suddividere il documentario in capitoli dai titoli evocativi, come ad esempio It’s only a movie, per introdurre l’analisi de L’ultima casa a sinistra, o Staying alive/staying dead per quella di Zombi. Come se non bastasse la già consistente ampiezza del crogiolo tematico, per un film che purtroppo ha una durata esigua, l’analisi viene estesa anche alle varie questioni politiche, socio-antropologiche, civili e culturali che scandirono la nascita del New Horror e che sono già state brevemente richiamate all’inizio di questo articolo. Ecco allora intrecciarsi il Vietnam con le lotte per i diritti civili, gli omicidi dei Kennedy o di King col massacro della Kent State University nel 1970 (nel quale la Guardia Nazionale aprì il fuoco sugli studenti, che protestavano contro l’invasione della Cambogia voluta dall’amministrazione Nixon, uccidendone quattro e ferendone nove), la crisi petrolifera del 1973 con il timore per gli americani di ritrovarsi a piedi, di veder sfumare repentinamente il sogno della progressione infinita del loro sviluppo socio-economico.
La carne al fuoco è tanta, forse troppa, ma TAN ha il merito – che ne costituirà però anche il limite strutturale maggiore, come vedremo fra breve – di legare le tematiche esterne appena menzionate, sintomatologia della fine dell’American Dream, a quelle interne, individuali, psicologiche, la cui dimensione di trauma latente riemerge nelle immagini filmiche, come inevitabile e necessaria proiezione del rimosso, per farlo riaffiorare sotto forma di (nuovo) incubo.
l cinema, nel suo carattere più schiettamente politico, come nel caso del New Horror, viene quindi a costituire, in modo ambivalente, il rifugio e la dannazione dello spettatore, l’ambiguo specchio deformante capace di spodestare temporaneamente il reale dall’orizzonte umano, per reinnestarlo sui cardini di un nuovo (dis)ordine cosmico folle, ancorché lucido, disturbante e tuttavia portatore di senso, in quanto latore di verità recondite e sommerse. Quest’ultimo versante costituisce indubbiamente il punto di maggior fascino del documentario di Simon, che si giova, tutt’altro che in subordine, della potenza delle altrui immagini (quelle dei grandi film omaggiati e analizzati), per moltiplicare la portata dei propri assunti. Anche il connubio parola-immagine riesce a non essere meramente didascalico o accessorio, ma sviluppa invece uno scambio continuo fra piani di significato diversi, a volte contigui o sovrapposti, altre volte richiamati tramite il potere allusivo delle immagini stesse, altre volte ancora sottolineati dalla presenza nell’inquadratura del locutore e dalla sua capacità di esprimersi tramite la propria abilità retorica e il proprio carisma personale. In quest’ultimo caso, si tratta del piacere di vedere e sentir parlare Hooper, Cronenberg, Carpenter, Romero e soprattutto Craven, probabilmente il più sottile e penetrante di tutti. TAN, quindi, avvince e cattura lo spettatore appassionato del genere, così come è in grado di incuriosire il novizio, risultando un’opera agile, piacevole, ben confezionata (eccellenti, a questo proposito, le scelte di accompagnamento musicale: Stockhausen e i Godspeed You Black Emperor!) e montata con un significativo senso del ritmo.
Se i pregi del lavoro di Simon si collocano prevalentemente sul versante “tattico”, i suoi limiti si situano invece su quello “strategico”, quindi nell’aver cercato un’impossibile sintesi panoramica fra quell’eterogenea galassia di suggestioni, incubi, idee e ossessioni che hanno costituito l’immaginario della new wave e la realtà storica che l’ha partorita (altra cosa è averne individuato dei punti di contatto, sia pure essenziali), un’impossibilità che si acuisce ancor di più nel porre a confronto gli statuti diversi, per natura e non solo per grado, delle immagini con cui è costruito TAN.
Infatti, se gli estratti filmici di finzione di cui si avvale TAN costituiscono l’universale, l’atemporale, l’Aion del cinema, quelli documentari dell’antico presente delle riprese effettuate nel 2000 – in prevalenza, i vari spezzoni di intervista – risentono di tutto il carico del tempo trascorso, cioè del Chronos, che, anziché situarli nella dimensione sempre-essente propria dell’universale, li colloca in quella transeunte del particolare e del contingente, sabbia che scivola via, per depositarsi sulle opache regioni di un passato ormai concluso. Una cosa è l’interesse suscitato dal sentir parlare i protagonisti dell’horror moderno americano o alcuni esperti dell’argomento, un’altra è lo statuto ontologico e la collocazione significante, nel contesto di un film-documento, delle immagini che li ritraggono. Può sembrare paradossale, ma non lo è, che queste ultime immagini vadano a collocarsi, per loro stessa costituzione e natura, nel medesimo insieme di quelle di repertorio, cioè sul versante della cronistoria dell’uomo. Anzi, per ulteriore paradosso, sono forse le immagini icastiche del Vietnam o di Kent State a slittare verso la dimensione dell’Aion, vista la loro qualità – acquisita nel tempo (cronologico) – ormai simbolica e al di là della storia, probabilmente semi-mitologica, mentre quelle del vecchio presente dell’anno 2000 appaiono sbiadite e, in alcuni casi, addirittura “false”, come nel caso degli spezzoni di intervista a Craven, morto appena due mesi fa. È il limite di ogni tentativo (sia pure lodevole nelle intenzioni e magari nelle realizzazioni) di storicizzare, contestualizzare e attualizzare il mito, di circoscriverne la portata cercando di irreggimentarlo nelle definizioni, nelle risposte e nelle etichette di un presente che, in un batter di ciglia, è già trascorso e mutato.
È il difetto di voler a tutti i costi aprire il vaso di Pandora dell’incubo per cercare di rivelarne i segreti, tanto più che già l’anno successivo, precisamente l’11/9/2001, tutti i vecchi paradigmi sarebbero saltati (in aria, verrebbe da dire), il Vietnam sarebbe divenuto, di colpo, archeologia (così come le utopie movimentiste del Sessantotto), nuovi incubi avrebbero divelto i vecchi – anche se l’universale filmico del New Horror sarebbe rimasto tale, e tale rimarrà comunque, disponendosi e adattandosi a illuminare gli amari sviluppi storici incombenti – e il sipario di un fosco orizzonte, inquietantemente inedito, sarebbe calato sulla deriva dell’umanità. In quest’ultimo caso, però, non è uno specifico demerito di Simon se la realtà, oramai, supera anche la fantasia più perversa e malsana.
TAN non è quindi un film-saggio – anche se probabilmente avrebbe voluto esserlo – bensì una collezione di immagini potenti e sagaci discorsi, che però non riescono a organizzarsi in un tutto armonico e organico, non per incapacità registiche, bensì per l’effettiva complessità dei temi trattati. Un film, quindi, “sbagliato” nelle premesse, ma ricco di molti frammenti perfetti.