Scream (2022)
Vorrebbe essere un film abissale, apocalittico, la prova che lo slasher tradizionale, oggi, è impossibile, ma in realtà è un progetto laboratoriale che punta a ricreare il passo di Craven in provetta. E così, l’Apocalisse non può che sgomitare, a forza, tra le immagini.
È lo stesso Scream, senza troppe cerimonie, a farci capire che, stavolta, qualcosa non torna. Basta un dettaglio fuori posto che manda fuori asse la tradizionale, cruenta, scena d’apertura, e l’intero sistema simbolico e tematico della saga viene riconfigurato in modo imprevisto. Scream continua a essere un franchise profondamente affascinato dalle evoluzioni del contesto mediale, e se già il capitolo precedente ragionava sulla trasformazione dello spettatore da homo videns a homo ludens, totalmente immerso nell’esperienza cinematografica, stavolta il centro del discorso non può che essere la fine degli immaginari.
Il primo Scream senza Wes Craven, diretto stavolta dalla coppia formata da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, si infila infatti nella stessa linea di altri film Apocalittici, come Matrix Resurrections, il West Side Story di Spielberg e il fondamentale The Irishman.
Ghostface torna a colpire nel tentativo di creare una narrazione che sia migliore dell’ultimo, annacquato Stab, ennesimo capitolo del franchise tutto meta ispirato alle vicende del primo Scream. Forse, tuttavia, non c’è più posto per lo slasher, oggi. Le vittime del killer, anzi, neanche ne conoscono più i capisaldi, sono piuttosto attratte dalle traiettorie Post Horror dei vari Jordan Peele, Ari Aster e Jennifer Kent (“chiedimi di Babadook”, implora uno dei personaggi, appena capisce che la sua fine potrebbe essere prossima). Eppure, più che a un raptus nichilista, disperato, sull’orlo dell’abisso di un intero genere, la sequela di omicidi del killer assomiglia a un rito sacrificale. Per Ghostface la partita è tutta generazionale: sotto le sue coltellate cadono figli, nipoti, parenti prossimi dei personaggi originali, veri e propri simulacri che custodiscono lo spirito della saga. Non c’è nessuna vera distruzione di un immaginario in Scream, piuttosto c’è la purificazione di un intero sistema di segni.
È uno scarto minimo, a suo modo inedito e per questo affascinante, tutto ancora inscritto nella semantica di Apocalisse (che rimanda alla distruzione ma anche a una sorta di catarsi), eppure contiene in sé le premesse di un rischioso cortocircuito nel sistema del film. Perché lo Scream che avrebbe dovuto dimostrare l’impossibilità dello slasher oggi non fa altro che riaffermarne, potenziati, i codici, in modo aggressivo, quasi forsennato. È forse il film più veloce della saga, questo, eppure il sistema non esorbita mai dai moduli del canone craveniano. È vero, si potrebbe dire che è proprio la cornice meta a imporre al film un ritorno alla forma, del primo episodio, e tuttavia è indubbio che un approccio del genere rischia di risultare controproducente. Perché Scream si limita, stancamente, a procedere quasi per accumulazione: segue lo schema di situazioni note, tra telefonate minatorie, inseguimenti, jump scares e feroci omicidi senza che questi spunti siano regolati da una presa di posizione originale sul genere e sull’immaginario di riferimento. E così qualsiasi riflessione sulla caducità dello slasher avviene quasi in modo involontario, stimolata da gesti, rituali, che non approcciati in modo critico vengono ridotti a inerti cliché a distanza di vent’anni.
Da un certo punto di vista, Scream è un film ambiguamente nazionalpopolare, tanto una satira del fan-service e del linguaggio dello slasher movie, quanto il film che ogni fan integralista della saga dovrebbe amare senza riserve, a seconda del pubblico con cui si interfaccia. Bettinelli-Olpin e Grillet sono cineasti appassionati, affettuosi nei confronti della saga e del genere ma evidentemente non hanno lo sguardo ironico e il piglio satirico di Wes Craven, e tuttavia il discorso, forse, è più complesso delle attese. Forse l’unico modo per incasellare davvero Scream è di trattarlo come il primo capitolo della saga inserito nelle meccaniche della Franchise Age. Stavolta non ci sono né Craven né Williamson a supervisionare lo script, ma soprattutto non c’è una casa di produzione veramente indipendente a gestire il progetto. Ci sono, piuttosto, il collettivo Radio Silence, nato come gruppo di lavoro indie ma sempre più inglobato nei meccanismi da major, e la Paramount, mai come ora alla ricerca di un franchise redditizio. E allora non è un caso, forse, che lo script sia stato affidato alla coppia formata da James Vanderbilt e Guy Busick, che sì, hanno già scritto Ready Or Not, il precedente film dei due registi, ma sono anche sceneggiatori sempre più strutturati nel sistema blockbuster (Vanderbilt ha scritto il secondo Independence Day, ad esempio e sarà l’autore del prossimo film di Bay).
Lo sguardo di Craven si brandizza, dunque, diventa uno strumento utile a fidelizzare (di nuovo) i vecchi fan della saga e attrarne di nuovi, un insieme di segni da ricreare in provetta senza comprenderne davvero mai la portata. Non stupisce che Scream tenti di riflettere su una delle grandi tematiche dell’intrattenimento contemporaneo, sulla crisi del suo stesso immaginario, senza però sporcarsi mai davvero le mani, evidentemente per non bruciarsi una property redditizia e, al contempo, cerchi di offrire allo spettatore un prodotto non soltanto il più possibile trasversale ma anche rassicurante.
Orchestrato per non fallire, Scream non può che risultare un asfissiante prodotto laboratoriale, che riesce a respirare davvero solo in determinati momenti, schegge che riescono a sfuggire alle maglie del controllo. Il film è in effetti puntellato di promettenti spunti che improvvisamente squarciano un reticolo altrimenti rigidissimo e riescono a interrogare davvero lo slasher sulla sua natura profonda, tra parentesi che ripensano il concetto di Final Girl, momenti che riconfigurano il genere al di fuori dei suoi tradizionali spazi domestici o sequenze dal piglio quasi concettuale, che mettono in crisi un intero immaginario semplicemente facendo girare a vuoto i suoi meccanismi essenziali, smaterializzando il gioco tra preda e predatore o giocando spudoratamente con il materiale (come nella straordinaria sequenza dell’omicidio letteralmente moltiplicato dagli schermi). Ma si tratta di elementi non finiti, idee solo abbozzate per decine di film-da-fare, forse, addirittura, sfuggite alle probabili, continue riscritture dello script, atti mancati che non riescono a liberare il film dalla sua fredda natura programmatica.
Scream trova il suo vero passo forse solo nell’ultimo atto, quando, inaspettatamente, la diegesi ha il coraggio di mandare in crisi almeno quella cornice “etica” che da sempre contraddistingue l’elemento slasher della saga, ma, al di là di questo, il film di Bettinelli-Olpin e Grillet è un prodotto che cade vittima del suo stesso meccanismo e paradossalmente, riesce nei suoi intenti, dimostrando quanto l’unico slasher possibile sia quello Post, d’autore, che si muove il più lontano possibile dai meccanismi delle major. Peccato che l’abbia fatto forse inconsapevolmente e ricorrendo a un folle autosabotaggio.