The Affair - Terza stagione
Dopo aver interrogato le verità passionale e processuale, con la terza stagione creazione di Sarah Treem e Hagai mette in scena la verità dell’abbandono attraverso l’abbandono di ogni forma di verità
Una serie – o, più in generale, un prodotto artistico – suscita interesse anche per la capacità di entrare in sintonia con lo zeitgeist della sua epoca, e di (ri)proporre nel linguaggio e nelle forme che le sono propri i nodi problematici che il discorso contemporaneo sta cercando di sciogliere. The Affair, creazione di Sarah Treem e Hagai Levi, si è mostrata sorprendentemente sensibile sotto questo aspetto e ha saputo, senza mai spezzarsi, flettersi anche sul piano strutturale per rinnovare, di stagione in stagione, la prospettiva sul soggetto in questione.
Che The Affair potesse essere letta come una riflessione sullo statuto della verità e sulle sue diverse sfaccettature (prospettiva, senso, interpretazione, memoria, onestà, …) era già chiaro dalle precedenti stagioni, che avevano saputo forzare il linguaggio televisivo – e radicalizzare tentativi, in questo senso più timidi (pensiamo ad esempio al teendrama britannico Skins), di rappresentare sul piccolo schermo la pluralità dei punti di vista – per portarlo ad un livello di reinvenzione simile a quello che la letteratura aveva raggiunto, fra gli altri, con Mentre morivo di William Faulkner. L’originalità della serie sta nell’aver saputo integrare a livello strutturale il suo discorso sul prospettivismo, facendo in modo che il soggetto della scrittura risulti essere quella stessa verità opaca che i diversi punti di vista, pur narrandola, non riescono a restituire in modo trasparente.
Ciò che si fa più chiaro con questa terza stagione è, in più, l’intenzione di estendere gli assunti del prospettivismo anche al piano meta-discorsivo e di affidare ad ogni annata il compito di mettere in scena una particolare prospettiva della verità. Se la prima sembrava assumere la verità dell’evento amoroso – l’affair appunto – come l’elemento capace di dare compattezza e giustificazione al susseguirsi degli altri eventi, e la seconda si affidava al tipo di autorevolezza, per il suo porsi a posteriori rispetto ai fatti, che offre il punto di vista processuale, questa terza stagione cerca di raccogliere i resti che queste due verità, dissipandosi, si sono lasciate dietro. L’unica verità comune ai personaggi è allora quella dell’abbandono di ogni forma di verità.
L’affair di Noah e Alison sembra aver concluso la sua parabola discendente e quando riappare lo fa solo nelle forme nostalgiche del ricordo o della fuga (come quella a Block Island del quinto episodio), con Noah che ha già scontato i tre anni di carcere per l’assassinio di Scotty: che i due si siano amati o meno o che Noah sia veramente colpevole non sembra avere, a questo punto, più importanza. Di pari passo, la struttura narrativa si fa più disordinata alternando episodi monografici ad altri a due voci non sempre simmetriche, che vanno a vanificare ogni sforzo interpretativo: rimangono solo delle voci che non comunicano più fra loro, che prendono parola e la lasciano senza debordare i limiti del metraggio dedicato ad ogni personaggio.
Lo spettatore di questa terza stagione è ancora chiamato a intraprendere, insieme allo show, una ricerca di senso ma non si tratta più, questa volta, del senso inteso come significato quanto piuttosto del senso inteso come direzione. La serie riesce, in questo modo, a riflettere una sensibilità tutta contemporanea pur senza rinunciare alla dinamica del coinvolgimento diretto, strutturale, dello spettatore che l’ha sempre definita. Le domande di senso continuano, così, ad essere poste ma queste portano più che altro a riflettere sul percorso di (ri)formazione dei personaggi che, senza nient’altro cui aggrapparsi, si concentrano (forse per la prima volta) solamente su loro stessi. Un percorso di questo tipo richiede, tuttavia, che venga trovato un modo per impedire che i riflussi di passato stagnino ed immobilizzino il presente – un pericolo tanto caro alle epoche segnate dall’abbandono delle vecchie divinità. Si tratta, per tutti i personaggi, di fare i conti con un passato tutto personale che torna a tormentarli sotto diverse forme: il senso di colpa di Helen, l’eterno guardare indietro di Cole, il vero e proprio fantasma che perseguita Noah, il ritorno al paese natale di Alison.
Letta in questo modo The Affair può offrirsi come occasione di riflessione su una buona fetta del sentire (anche artistico) contemporaneo – quello della fine della Storia, della retromania, dell’hauntology o della post-truth – ed il prolungamento del suo discorso farsi sinceramente interessante. Showtime ha rinnovato la serie per una quarta stagione e l’epilogo di questa terza sembra poter promettere un seguito meno cupo. Il prossimo capitolo troverà, forse, le basi per far ripartire il racconto dalla verità personalissima di personaggi che sono riusciti a rimettere insieme i pezzi dopo la loro, tutta privata, catabasi.