Agent Carter (1° st.)
La nuova serie Marvel accetta la sfida di riscrivere le regole dell'universo supereroistico da una prospettiva al femminile, offrendosi come un esperimento fra i più interessanti della casa
Il fatto che Agent Carter sia stata proposta nella pausa di programmazione di Agents of SHIELD permette una considerazione generale sull’andamento delle serie tv griffate Marvel, dove si ha la sensazione (ancor più che nei film) di un discorso generale portato avanti con una perfetta coerenza tecnica e ideale, prima ancora che collegata ai fatti effettivamente narrati nelle varie puntate. Il nuovo prodotto è breve (solo 8 puntate) ma animato dallo stesso entusiasmo febbrile che si respira nell’altra serie degli agenti segreti dopo il twist impresso dagli eventi di Captain America: The Winter Soldier. E qui come lì, il format è terreno di sperimentazioni per lasciar germogliare gli spunti che troveranno poi spazio nella saga “maggiore”, quella dei film cinematografici: perché, si sa, sul grande schermo i numeri sono più grossi, ma gli spazi d’azione sono minori, mentre in televisione si può sperimentare di più. Così, se SHIELD introduce gli Inumani, Agent Carter porta a compimento un tema pure molto dibattuto fra produttori e autori, ovvero quello di una possibile prospettiva umana e tutta “al femminile” dell’universo marveliano, non più limitato soltanto all’attesa del salvatore in costume.
Il fatto stesso di essere ambientata subito dopo gli eventi di Captain America: Il primo Vendicatore, ha il doppio significato di riformulare le origini dell’universo supereroistico dalla nuova prospettiva, oltre che di raccontare la lotta di sopravvivenza e di affermazione del sé che l’eroina Peggy Carter deve affrontare dopo la perdita dell’amato Steve Rogers/Cap. E, in effetti, il doppio passo è quello: da un lato un delizioso recupero di stilemi da screwball comedy in salsa action, con la Peggy di Hayley Atwell impegnata a barcamenarsi fra colleghi che la compatiscono costringendola a far da sola, e comprimari che alleggeriscono la tensione. D’altronde, si sa, negli anni Quaranta l’emancipazione femminile era materia ancora poco pratica per le masse e quindi il farsi strada della nostra Carter deve necessariamente passare per un trasformismo che è l’esatto contraltare dell’indossare i costumi tipico dei supereroi. Per questo la sua identità passa per numerose mutazioni nel corso dell’intera narrazione, rendendola un corpo proteiforme, costretta a mantenere la propria femminilità, ma senza mai disperdere la grinta da combattente contro il Male, sebbene all’insaputa dei colleghi. Una vera supereroina pur senza il tradizionale status, che ci ricorda come in fondo le grandi responsabilità nascono sì dai grandi poteri, ma ancora prima da ideali che sono quelli dell’umanità nella sua essenza più profonda.
Dall’altro versante c’è poi l’azione più pura, quasi in odore di ucronia per come usa la tecnologia d’epoca in modo avveniristico, immaginando piani sensazionalistici da parte di un fronte nemico filologicamente ricondotto verso gli stilemi della Guerra Fredda (i cattivi sono russi), ma abilmente sparigliato per lasciar emergere nuove possibilità (si veda il bel colpo di scena nel post-finale dell’ultima puntata). Non solo Peggy, quindi, ma tutti i personaggi finiscono così per avere più identità: l’eroico miliardario Howard Stark è sospettato di tradimento verso la nazione; l’amabile compagna di dormitorio Dottie è in realtà una temibile (e affascinante) assassina; e, più di tutti, l’irresistibile valletto Edwin Jarvis di James D’Arcy è un alleato imprescindibile sebbene poco propenso all’azione, perfettamente in grado di solleticare lo spettatore circa le sue reali qualità e perciò più di tutti capace di assorbire questa tensione alla ricerca di un proprio posto nel mondo.
E’ divertente Agent Carter, nel senso più pieno del termine: piace per la ricostruzione storica che ammanta gli intrighi di un delizioso fascino vintage; spiazza per le trovate fuori dal suo tempo, che ci fanno capire come la sua natura di prequel rispetto agli eventi del Cinematic Universe sarà in grado di fornire nuovi e più intriganti prospettive sulle avventure del grande schermo; intriga per la visione di un mondo dove la donna capovolge il suo ruolo ma lascia abilmente che l’uomo pensi di essere ancora al comando. E infine orchestra bene l’azione, permettendo al racconto di essere sempre incalzante nella sua stringatezza, tanto da ridurre al minimo le strizzatine d’occhio per i soli iniziati. Le cronache raccontano di ascolti poco esaltanti, forse per la formula troppo abilmente raffinata nel suo taglio pur popolare: speriamo non si commetta l’errore di non farla proseguire perché sinora è fra gli esperimenti più riusciti della Casa.