The Falcon And The Winter Soldier

di Kari Skogland Malcolm Spellman

La serie Marvel/Disney affronta con coraggio i residui immaginifici dell’America di Trump ma non affonda mai davvero il colpo, insicura, forse, delle potenzialità militanti applicate alla forma Blockbuster.

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Seconda serie supereroistica offerta da Disney+, The Falcon and The Winter Soldier conferma quanto Disney e Marvel Studios concepiscano la serialità come laboratorio di riflessione sui segni essenziali del franchise post Endgame, ma è soprattutto il maggior indice di quanto l’MCU abbia un rapporto del tutto particolare con il concetto di pop, che influenza il suo dialogo con l’attualità e il suo target.

La serie di Malcolm Spellman è, in questo senso, un progetto imprescindibile dal tempo presente che intende raccontare, a tal punto che, in origine, sarebbe dovuta uscire al posto di Wandavision, nell’America di George Floyd e della fine della presidenza Trump. A contatto con una realtà priva di guida, il progetto di Spellman non può che porre al suo centro un eroe senza poteri e osservare il racconto ad altezza uomo, concentrandosi sullo spazio fuori scena del cinecomic e sulle impreviste, catastrofiche conseguenze dell’atto salvifico degli Avengers, similmente a quanto avvenuto con Civil War. Riletto dal punto di vista di The Falcon And The Winter Soldier, dunque, lo schiocco di Thanos, oltre a rompere un intero immaginario, ne ha svelati la grana concreta e i lati oscuri, puntando l’attenzione su tutti coloro che sono rimasti indietro e che hanno faticato a trovare posto nella realtà ricostruita dopo Endgame.

E dunque, nella realtà che non sa di essere (ancora) a pezzi della serie, tra fanatici in grado di ricreare il siero del supersoldato, Avengers costretti a fare i conti con l’eredità di Captain America e soldati incaricati dal governo di imbracciarne lo scudo, l’eroe prima di essere considerato una minaccia è soprattutto un privilegiato, qualcuno che non comprende, forse, i danni che ha causato nel tentativo di salvare il mondo e che possiede qualcosa che altri credono di meritare di più. La serie organizza dunque una narrazione lucidamente politicizzata, che attraversa gran parte dei lati oscuri dell’America recente, raccontandone il populismo dilagante, le insicurezze, l’estremismo ideologico, il razzismo latente, spingendosi fino a riflettere criticamente sul terrorismo e a rileggere il supereroe da una prospettiva suprematista.
L
’arco di trasformazione che porta il giovane Sam Falcon Wilson a diventare l’unico erede di Steve Rogers nasconde in piena vista un evidente desiderio di ricostruzione, che parte dalla dimensione socioculturale americana ma che finisce per coinvolgere anche l’immaginario di riferimento. La Marvel infatti pone al centro della serie un racconto che ha smarrito le sue coordinate essenziali finendo per perdersi in un flusso invaso da schegge che rientrano in gioco in maniera distorta, anche solo citando altri film del franchise. Da qui, lentamente, la serie ricostruisce un’architettura simbolica che possa guidare i singoli input a partire dalla struttura tipica degli action americani anni ’80 e ’90, i cui elementi essenziali vengono via via riprocessati nel corso del racconto.

Si tratta, a ben vedere, di una scelta non casuale. In quel modo di intendere il cinema action c’è infatti il germe di un machismo che è stato (anche, ma non solo) alla base della narrativa della presidenza Trump, un’escrescenza traumatica che chiede di essere processata e rilanciata. Alla diegesi non rimane dunque che attraversare (cambiandoli di segno) certi elementi di quell’immaginario nel tentativo di ritrovare una via per ripartire. Ora è Falcon, icona black progressista, umile, giusta, ma soprattutto rappresentante di una mascolinità non aggressiva né prevaricante, esattamente agli antipodi del modello estremista rappresentato da John Walker, a essere al centro del racconto; è lui il protagonista dell’iconico training montage, residuo evidente di quel cinema, che sancisce la sua piena maturazione e che di fatto apre ad uno scontro finale dal sapore McTiernano.

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The Falcon And The Winter Soldier riannoda con lungimiranza la sua struttura simbolica ritrovandola nel costante dialogo tra passato e presente di un intero genere anche grazie all’esperienza maturata da Spellman nella writer’s room di John Wick (grande riformatore di quel tipo di action, tra l’altro) ma probabilmente non si rende conto che l’opera ricostruttiva si spinge troppo oltre e a tratti eccede in soluzioni narrative incoerenti. Pensiamo, ad esempio, all’arco di John Walker, che nell’ultimo atto rinsavisce improvvisamente e si allea con gli eroi contro i Flag Smashers in un finale che, nel riprendere forse il topos del villain convertito alla base di franchise muscolari come Fast And Furious, risulta troppo frettoloso. Proprio il superficiale epilogo di Falcon And The Winter Soldier è il perfetto sintomo di quanto il pop sia una dimensione ancora di difficile approccio, malgrado le apparenze, per la Marvel cinematografica. Straordinaria creatrice di mondi cinematografici, la Casa delle Idee non riesce tuttavia ancora a utilizzare le storie ambientate in quei mondi come vettori di riflessioni davvero d’impatto nel contesto socioculturale e da questo punto di vista l’ambiziosa e affascinante lettura politica dell’America contemporanea insita nella serie non fa certamente eccezione. È un po’ come se si temesse che la forma blockbuster non possa essere anche, a suo modo, militante, perché nel farlo si correrebbe il rischio di alienare gran parte del pubblico. Per questo, nel momento in cui si sposta a ragionare sul suo tessuto tematico, la serie sceglie una serie di argomentazioni a grana grossa, che annacquano ottimi spunti in una forma artefatta, preferendo rifugiarsi in metafore urlate o in monologhi a tratti didascalici, piuttosto che nel tessuto vivo del racconto, forse troppo insicura nel demandare l’intero spettro della riflessione ai corpi e ai gesti di John Walker e Isaiah Bradley, di per sé entità politiche raccontate con ammirevole cura.

The Falcon And The Winter Soldier è dunque una serie paradossale, straordinariamente coerente sul piano tematico ma al contempo strabordante, fuori fuoco e di gran lunga meno incisiva nella sua dimensione ideologica di quanto avrebbe potuto essere. La serie di Spellman ha il coraggio di ripensare da zero un intero immaginario, ma è anche la prova di quanto la Marvel possa parlare al presente forse solo mitigando le sue riflessioni a partire da una simbolica struttura-filtro. Ritorna dunque il paradosso del pur ottimo Black Panther, un blockbuster diventato simbolo della comunità afroamericana ma incapace, forse, di indirizzare a dovere i suoi numerosissimi spunti militanti in un discorso coeso proprio perché troppo chiusi nelle sue riflessioni teoriche sull’afrofuturismo.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 04/05/2021
USA 2021
Durata: Miniserie da 6 episodi

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