Spider-Man: No Way Home
Una lucida riflessione sullo stato di salute dell’immagine nell’MCU, ma anche, sottotraccia, il riflesso ambiguo di un panorama opprimente, in cui il cinema appare sempre più laboratoriale e sintetizzato dal lato oscuro dell’algoritmo.
È già tutto nella prima sequenza: subito dopo lo scontro con Mysterio e la rivelazione della sua identità segreta, Spider-Man è al centro dell’attenzione e si ritrova circondato da smartphone che lo fotografano, mentre il suo volto comincia a campeggiare sui maxi schermi di Time Square. Il franchise di Jon Watts è ancora uno dei prodotti pop che raccontano meglio le mutazioni del rapporto tra immagine e spettatore-utente nel contesto contemporaneo e così, se Far From Home è stato il cinecomic della post-verità, dell’immagine manipolata, Spider-Man No Way Home mostra quella stessa immagine, quello stesso immaginario, venire dominato dalla Marvel Studios della Disney, che ne ripensa i presupposti, dettando i tempi dell’esperienza cinematografica e la sua sintassi.
Perché ormai l’MCU è sempre più uno strumento mitopoietico a tutti gli effetti, e non ha più senso nascondersi. Forse è per questo che il film inizia in medias res, perché ormai ogni narrazione è serializzata, dipendente da un “prima” e da un “dopo”, e da qui subito esonda in un momento dal ritmo forsennato che ha il suo apice in un inatteso piano sequenza, davvero un unicum nel codice visivo chiuso dell’MCU. Perché la maturazione insita nello Spider-Man di No Way Home, che diventa adulto dopo essersi confrontato con minacce inter-dimensionali, è anche la maturazione dell’immagine del cinecomic contemporaneo, sempre più emancipata, sempre più consapevole e pronta a riscrivere lo spazio che la circonda. Da questo punto di vista il film è un lucidissimo punto zero del cinema popolare, una sorta di Meta-Franchise Turn, per dirla con Mitchell, in cui, forse per la prima volta all’interno dell’MCU, l’immagine si sdoppia, rimane strumento narrativo ma diviene anche un oggetto di riflessione teorica sulla sua stessa natura. In realtà il processo è iniziato con Eternals, che già viaggiava tra i formati e interrogava l’immaginario Marvel sui suoi limiti; tuttavia qui l’atteggiamento si fa più aggressivo. “Non esiste nulla prima di me”, sembra gridare No Way Home, e così, mentre lo spazio narrativo assorbe input provenienti da qualsiasi dimensione mediale (i film di Raimi e Webb, certo, ma anche fumetti e videogames) lo Spider-Man di Tom Holland cura, aggiusta – dunque ingloba nel proprio sistema di segni – quei villain che ormai sono detriti di un cinema che è stato, addirittura pre-digitale, figure grottesche su cui non si può non ironizzare. Doctor Strange descrive come un “elfo verde volante” il Green Goblin di Willem Dafoe, forse l’unico, insieme al Doc Ock di Alfred Molina, che non ha perso nulla del suo impatto sulla scena e che, tuttavia, il passaggio da un immaginario all’altro ha reso comunque un puntino smarrito sulla mappa.
Ma mentre No Way Home rimediatizza intere porzioni dello spazio narrativo, arrivando a correggere gli errori dei film precedenti, non bisogna sottovalutare ciò che si muove tra le pieghe delle immagini. Perché il film di Watts pare essere caratterizzato da una curiosa pulsione scopica, dalla continua evocazione dell’atto del guardare. No Way Home è in effetti un trionfo di schermi, di smartphone in collegamento video, di mappe olografiche, di superfici specchiate, perché nel processo di rimediazione di un intero immaginario viene coinvolto anche il sistema attraverso cui si fa esperienza di quelle immagini. Anche in questo No Way Home tira una linea netta e si impone come parte di un nuovo statuto della visione, che rifiuta le immagini statiche (i villains nelle loro gabbie trasparenti, osservati come in un panopticon) e accoglie le immagini dinamiche, quelle aperte all’interazione dell’utente. Proprio l’interattività è un elemento fondamentale nel complesso discorso di No Way Home. Nell’interrogarsi sui nuovi statuti di visione il film coinvolge infatti il fuoricampo, il pubblico, la dimensione popolare, come raramente è stato fatto in precedenza. No Way Home non può prescindere dal tenere in ballo, nel ragionamento, anche lo spettatore, entità sempre più attiva nel dialogo con il prodotto audiovisivo, sempre più autore, creativo egli stesso. E tuttavia è qui che l’affascinante discorso concettuale del film si inceppa. Perché man mano che si raggiunge il climax narrativo è proprio lo spettatore a dover integrare e ricostruire il reticolo emotivo del film, altrimenti manchevole. È in effetti così radicale, così sicuro della sua abilità di ripensare un intero immaginario senza sforzo, No Way Home, da agire per sottrazione. Perché non serve premere sul pathos, non serve indagare in profondità i personaggi, il pubblico sarà sempre e comunque conquistato, il resto lo farà la nostalgia. E così l’arrivo degli altri due Peter Parker è un affascinante ma rigido trionfo dell’understatement. I dialoghi tra loro non sono altro che un pretesto per giocare con le citazioni, non c’è alcuna riflessione sulla maturazione dell’eroe, né sul tempo che passa se non sui volti dei tre attori (ma dopotutto, in un cinema che è sempre più transmediale, è stato Into The Spider-Verse ad aver compiuto quel discorso, non serve tornarci). Il cinema, quello vero, quello ragionato, a volte riesce a emergere ma non riesce a liberarsi di una certa inquietudine: il confronto finale tra gli eroi e i villains, è ad esempio un piccolo saggio di storytelling visivo ma è anche l’apice del fan-service straripante su cui si ripiega a volte il film; lo straordinario salvataggio di MJ è la traslazione sulla scena dell’aggressivo processo correttivo del passato che la Marvel ha messo in campo fino a quel momento, e il delicato finale con il Peter di Holland che cammina per una New York innevata pare un’inquietante profezia su un sempre più presente cinema sintetico, tra la Hollywood Classica ed il cinema delle piattaforme, in cui a dominare continua a essere questa strana figura dello spettatore/utente/fan, l’unico che, ora, conosce l’identità segreta di Peter Parker.
Spider-Man: No Way Home è uno straordinario oggetto concettuale, che racconta alla perfezione lo stato di salute dell’immagine nel cinema popolare americano (oltreché definitivo show of power della Marvel), ma, paradossalmente, si dimostra anche un prodotto inerte nella dimensione narrativa, forse suprema definizione di un cinema pop sempre più in provetta, sempre più preda degli algoritmi, lontano dalla dimensione umana.