Selfie
Il video-selfie come forma di auto-rappresentazione e costruzione identitaria
È certamente vero che ormai le tecnologie dei media digitali oltre ad attivare innovative modalità di partecipazione, interazione, comunicazione, promuovono nuove forme contemporanee di narrazione. Nel momento in cui lo smartphone diventa un’estensione protesica sia del braccio che dell’occhio dell’utente il racconto in prima persona viene risemantizzato in un’enfatica modalità di auto-rappresentazione come nel caso di Selfie (2018) di Agostino Ferrente. Il regista decide di lasciare il potere del racconto per immagini a due ragazzi di sedici anni, Alessandro e Pietro, che devono documentare e testimoniare la propria quotidianità attraverso la pratica del video-selfie. Ferrente decide infatti di affidarsi al racconto in prima persona dei giovani, dal momento che la natura del suo sguardo su una realtà e una dimensione che non gli appartiene ne avrebbe contaminato la rappresentazione. Alessandro e Pietro diventano dunque soggetti/registi, oltre a filmare la realtà che li circonda nel quartiere Traiano di Napoli si posizionano loro stessi sempre di fronte alla camera e al centro dell’evento. Il selfie implica infatti una doppia azione, mostrare o catturare un evento e comunicare qualcosa riguardo a questo nel momento in cui la foto o il video vengono condivisi con altri. Il soggetto/fotografo si presenta come testimone e il suo atto di testimoniare necessita un pubblico. Il significato del sé rappresentato dal selfie è restituito e ottenuto tramite l’interazione tra la persona e lo spazio/evento che si mostra alle spalle.
Nonostante Ferrente abbia il potere, non secondario, delle scelte finali in fase di montaggio, sono Alessandro e Pietro ad avere in mano la macchina da presa (lo smartphone) e sono loro a decidere su cosa concentrarsi, cosa mettere a fuoco, cosa integrare e cosa escludere dalla narrazione. Ferrente certamente vuole che emergano le problematicità di una realtà complicata come quella della periferia di Napoli in cui spesso i giovani abbandonanti da genitori e istituzioni si lascano conquistare dai “soldi facili” e prendono parte ad attività criminose. “Ho anche provato a fare lo spacciatore ma non fa per me” confida Pietro. “Non crediate che tutti si muovano con il macchinone o che abbiano il rolex al polso, ce ne sarà uno così, tutti gli altri sono poveri disperati che cercano di portare il pane a casa” prosegue il ragazzo. Da una parte la realtà criminale rappresentata nel cinema e nella televisione, raccontata dai media d’informazione, dall’altra quella che i giovani vogliono mostrare e restituire. A farsi produttori d’immagini sono due ragazzi con prospettive e intenzioni, apparentemente, diametralmente opposte. Pietro condanna la parte marcia del quartiere e sembra voler realizzare una video inchiesta. Arriva addirittura ad intervistare un ragazzo del quartiere che di spalle e con la voce camuffata dovrebbe raccontare come funziona lo spaccio nel rione. “Perché non lo sai come funziona?” gli risponde contrariato l’intervistato concludendo in questo modo la conversazione. Contrariamente, Alessandro vuole solo mostrare “le cose belle”, “le cose positive” del quartiere così come del loro vivere quotidiano.
A riecheggiare più volte all’interno della narrazione è l’episodio della morte di Davide Bifolco, sedicenne ucciso nel 2014 da un carabiniere perché creduto un pregiudicato in fuga, a cui viene dedicato il film. Il racconto di Alessandro e Pietro cerca di gettare una nuova luce sulla figura del giovane ucciso, vicenda distorta e deformata dai media e dall’opinione pubblica. Pietro e Alessandro incontrano anche i genitori di Davide per parlare della tragica vicenda mentre rivedono le immagini dei telegiornali che trattano l’argomento. Lo sguardo dei media depersonalizza e oggettifica la comunità giovanile di Napoli non attribuendo ai ragazzi alcun valore identitario e strumentalizzando le loro azioni e quello a cui vanno incontro.
La soggettività specifica dei giovani non emerge dal racconto dei media, il cui sguardo egemonico oscura il soggetto altro, così come le immagini realizzate dall’occhio depersonalizzato dei sistemi di video-sorveglianza che vengono inserite nel film come contrapposizione ai video-selfie di Pietro e Alessandro. La realtà catturata dai sistemi robotici di controllo mostra, a distanza, individui senza singolarità, senza un nome e un volto. Dall’altra parte invece, il racconto in prima persona non rimane una modalità di rappresentazione visiva o un semplice strumento mnemonico ma una forma di comunicazione e di formazione identitaria dal momento che il selfie assume il ruolo di lingua parlata nel corrente panorama della comunicazione sociale. Nella relazione e nell’interazione tra il sè e lo spazio geografico e sociale intorno il videoselfie diventa un’esibizione che rende esplicito il valore performativo del processo mnemonico, della trasmissione del ricordo e della creazione di significato.