Foglie al vento
Kaurismaki torna ancora e sempre a sé stesso ma per toccare poi qualcos'altro, scartare appena di lato, non essere mai davvero identico, copia conforme, e si apre alla grazia attraverso una storia d'amore proletaria e affezionata al cinema, mai stata tanto fresca e libera come in questo film.
Approdare al cinema di Kaurismaki ha sempre riguardato l’approdo a uno spazio (uno stadio) di grazia. O quantomeno l’impressione di esso. Come se l’autore finnico dagli anni 80 in su si sia incaricato di una missione di depurazione, magari anche solo di alleviamento in alcuni frangenti, che lo imponesse come zona franca, le sue immagini come luogo di ristoro. Un tempo lo diceva: voleva “inoculare un po’ di ottimismo senza perdere il contatto con la realtà. Un po’ come fare del neorealismo contemporaneo, ma a colori”. Il punto è che da allora il cinema di Kaurismaki è - almeno per chi scrive - persino migliorato in questo senso, attraverso un quieto ammorbidimento di forme. Foglie al vento resterebbe un film preziosissimo anche considerandolo a sé, separato dalla rete e dalle traiettorie percorse lungo 40 anni dal regista finlandese, e tuttavia calandolo nel discorso e nella prospettiva (qui indispensabile) della politique des auters, se ne comprende meglio la sua importanza capitale, la qualità della materia attraverso una lavorazione quasi secolare.
Serge Daney diceva dell’importanza nel cinema (ma non solo: nei viaggi, in una giornata, nella musica in particolare, come poi vedremo) delle concatenazioni, “l’arte di passare da una tappa all’altra (stadi, stasi) con la coscienza zelighiana di essere (se stessi) e di non essere (lo stesso)”. A ben vedere, non potremmo essere più certi di attribuire a questa concatenazione e a questo territorio il cinema di Kaurismaki, accanto a quello del modello costitutivo di Ozu. Più di una semplice variazione sul tema: Kaurismaki e Ozu integrano di volta in volta il loro spettro con qualcos’altro, qualcosa di appena e quasi irriconoscibilmente nuovo, attraverso una solida fedeltà a loro stessi. Con la storia dell’amore sempre proletario e lieve che sboccia tra Ansa e Holappa, in Foglie al vento Kaurismaki manifesta quindi l’ennesimo approdo alla grazia, di matrice naturalmente bressoniana, proprio nell’attraversamento di una piccola svolta. Sempre con Daney, appunto: “è sufficiente una svolta per creare dell’aldilà”.
Ansa è prima una commessa, poi viene licenziata per essere stata sorpresa a intascarsi una ciambella scaduta e viene assunta come lavapiatti, giusto il tempo di vedere il proprietario del ristorante arrestato per spaccio, infine è operaia in fabbrica. Per Holappa il percorso è simile: da operaio a manovale, fino all’ennesimo licenziamento dettato però in questo caso dalla sua negligenza. Un alcolizzato apparentemente senza speranza che accettando un giorno di accompagnare al karaoke il collega e amico Huotari (un gigantesco, comicissimo Janne Hyytiäinen) ha il suo incontro col destino, fissato nello sguardo timido di Ansa. Sonata di Schubert performata sul palco con l’accompagnamento di un canto finnico, le luci basse e soffuse che contornano i corpi immobili nel pub secondo una declinazione chiaramente hopperiana; serve pochissimo alle immagini per caricare questo momento di puro lirismo. Ansa e Holappa si incontreranno a più riprese lungo i soli (anche qui, di grazia) 81 minuti del film, inciampando negli imprevisti, nei detour comici e tirati, irreali, dettati dalla reciproca idiozia (lui perde il numero di telefono di lei e non può rintracciarla giacché neppure si sono presentati per nome), per poi tornare sempre e soltanto nell’unico luogo possibile in cui potrebbero reincontrarsi, senza perdersi di vista. Il cinema, naturalmente, il luogo che ha battezzato il loro amore e il loro primo appuntamento. Guardano I morti non muoiono di Jarmusch, sodale di Kaurismaki, e mentre fuori dalla sala un paio di signori scomodano paragoni altisonanti con Bresson e Godard (Diario di un curato di campagna e Bande à part), Ansa si limita a dire con sincera tenerezza che il film l’è piaciuto perché non ha mai riso così tanto. Ancora, il cinema è dappertutto, tappezza le pareti con le locandine non solo fuori dalla sala (ci sono Ozu, Fellini, Lean, Godard, ecc.) ma pure al centro dell’inquadratura, sopra le teste dei personaggi seduti al pub, con Delon in bella mostra in Rocco e i suoi fratelli. Nessuno sfoggio di cinefilia, neanche semplice citazionismo, ma soltanto l’aderenza, la partecipazione a un orizzonte familiare in grado di creare un’alcova dentro quell’altro orizzonte più espanso che è il mondo raffreddato e industriale della Helsinki kaurismakiana.
E sappiamo che i personaggi di Kaurismaki partecipano a plasmare questo luogo ormai senza tempo, quasi romanticamente rimasto congelato agli anni 80, tra radio e jukebox (anche se il calendario indica che siamo già nel 2024), muovendo i loro corpi con l’ormai classico automatismo bressoniano e comunicando tra loro in forma sincopata, sintetica, come se non servissero loro le parole per rivelare la bontà o il dolore delle ferite provocate dalla percosse della società capitalista. Ma c'è anche (in particolar modo in questo film) qualcosa di più.
Sarà che Alma Pöysti ha il volto forse più tenero di tutte le eroine di Kaurismaki, ma la discrezione con cui occupa l’immagine accanto a Holappa e la comicità laconica (eppure mai così frizzante e gustosa) che anima i loro incontri determinano quella lieve svolta che li avvicina alla grazia (accanto, naturalmente, alla grazia delle immagini stesse). Concatenazioni, appunto, tornando a Daney, che dialogano col passato e lo conducono dentro questo presente fatto di nuove e appena palpabili curvature, rapprese nella sua ormai paradigmatica auto-conservazione. Essere sé stessi e non essere lo stesso. Spetta quindi alla musica la concatenazione decisiva, che dalla rivelazione dell’amore fulminante nell’accompagnamento di Schubert muove poi all’esclamazione dell’estasi latente dei corpi con una (spassosissima) traduzione finnica del Mambo italiano, per approdare infine ai versi cantati dal duo pop rock dei Maustetytöt, attraverso i quali si confeziona il momento più alto e bello del film. Un’epifania improvvisa si posa sul volto di Holappa, ora quasi trasceso e lontano dalla vertigine di una fine disastrosa, e lo porta a donarsi per intero a un amore sano, fino a smettere di bere. Anche quando le foglie morte “cadono a mucchi”, come nella poesia di Prevert da cui il titolo originale del film è tratto, il “fedele e silenzioso amore / sorride ancora, dice grazie alla vita”. Le vediamo, le foglie al vento, alla luce diafana di un’alba su uno squarcio industriale privato della componente umana; le vediamo al cinema ai piedi di Holappa in attesa di Ansa; e le vediamo fluttuare attorno ai due su una panchina, in un altro giorno, un’altra alba ancora d’inverno ma che per loro è una primavera dell’anima, mentre il piccolo Chaplin, il cagnolino salvato dall’abbandono da Ansa, scodinzola e li guarda, cammina con loro, all’apparire del giorno.
“Com’era più bella la vita \ e com'era più bruciante il sole”. È quella piccola svolta apparentemente semplice, e che tuttavia in pochi riescono a replicare, con cui Ansa e Holappa, Kaurismaki, il nostro sguardo, “creano dell’aldilà”.