La Permanence
Alice Diop torna a riflettere sul difficile e spesso sottovalutato processo di integrazione, facendone, ne La Permanence, un punto nodale.
Luoghi d’incontro, luoghi di tragitto, luoghi ai margini, realtà ai margini, spazi interstiziali in cui fluisce e confluisce un mondo in continuo divenire sono i territori esplorati da Alice Diop nel suo cinema. Il difficile e spesso sottovalutato processo di integrazione, su cui aveva già riflettuto in La mort de Danton (2011) RER B (2017) e Nous (2021), è il punto nodale di La Permanence (2016), presentato al festival Cinéma du Réel.
Ritratti, profili, volti e soprattutto parole, racconti ed esperienze vengono raccolti nel film, girato interamente nel consultorio dell’ospedale di Avicenna a Bobigny, un quartiere nella periferia Nord-Est di Parigi. Un medico, Jean-Pierre Geeraert, talvolta affiancato da un’assistente o una terapista accoglie nel suo studio migranti che non hanno accesso al servizio medico sanitario. I rifugiati parlano dei propri sintomi, malesseri fisici e psicologici accresciuti dalla situazione quotidiana che vivono, molti senza un lavoro e senza fissa dimora, persi nell’iter burocratico per ottenere sussidi statali, così come dalle esperienze passate. Un uomo singalese rievoca l’esperienza passata, le torture subite dall’esercito e il periodo di detenzione in carcere. Indica sul proprio corpo i segni e le tracce delle percosse. Anche lui lì per ottenere un certificato che attesti il suo stato fragile di salute e conseguentemente la necessità di un luogo in cui dormire. Alice Diop lascia che il trauma riaffiori dalla testimonianza, dall’atto verbale condiviso con l’altro, il medico e lo spettatore stesso, non ci sono ricostruzioni finzionali, reenactment o immagini d’archivio a riempire e accompagnare il racconto dei rifugiati.
Così come per Saint Omer (2022), film girato in ampia parte in un’aula di tribunale, e basato su diverse testimonianze, La Permanence è un film prevalentemente verbale, in cui è il potere immaginativo della parola a guidare la narrazione cinematografica. L’inquadratura rimane fissa, salvo rari movimenti di macchina per seguire piccoli spostamenti o movimenti dell’interlocutore. Lo sguardo rimane per lo più sul migrante sia nel momento in cui parla sia mentre ascolta le parole del medico. In questo modo lo spettatore può cogliere la sua storia, le sue preoccupazioni e i suoi stati d’animo anche attraverso il linguaggio del corpo. Mancano però i primissimi piani, che potrebbero portare ad una ricerca patemica e sensazionalistica del racconto. La ripresa viene effettuata invece da sopra la spalla del medico in modo da mantenere una giusta distanza critica e incorniciare il rifugiato all’interno di un contesto di dialogo con l’altro. Lo scavalcamento di campo, con la macchina da presa che inquadra la scrivania del medico, avviene nel momento in cui non sono presenti in studio pazienti oppure nel finale quando è una donna a raccontare la propria esperienza. Ripensa a quello che ha subito dalla propria famiglia, violenze e soprusi, cacciata di casa dallo zio e adesso arrivata in Francia con il bambino appena nato. Nonostante la distanza che cerca di mantenere la regista, evitando, come dicevamo prima, una spettacolarizzazione del dolore, la donna ha un crollo scoppia a piangere mentre il medico legge la traduzione in francese del resoconto che ha fornito, non viene mai inquadrata in volto, sempre di spalle, si spoglia e mostra le ferite e le bruciature fuori campo, riesce ad instaurare una potentissima connessione empatica tanto da entrare in campo per abbracciare e consolare la vittima.
«Mi hanno parlato di uomini e umanità. Ma non ho visto né uomini né umanità. Ho visto molte persone, totalmente differenti, ognuna separata da uno spazio deserto». Sono le parole di Fernando Pessoa che aprono il film il quale si chiude invece con un’immagine potentissima. Lo spazio asettico e deserto della sala di attesa viene contrapposto alla stanza in cui avviene la visita, in cui nel finale emerge tutto il calore e la restituzione di umanità nell’abbraccio tra il neonato e il dottore.