Saint Omer
Alice Diop riprogramma il codice del genere giudiziario trasformandolo da una macchina di verità a un circuito di immagini improduttive che istanziano il cinema come crisi del linguaggio.
C’è un corto di Alice Diop in cui una mano tratteggia, su una piccola porzione di tela, il disegno di alcuni binari ferroviari in prospettiva. In sottofondo si sente lo sbuffare dei treni e il loro movimento in entrata, in uscita, ma l’inquadratura rimane fissa sull’acquarello che la mano compone con dettagli sempre maggiori. Per una buona manciata di secondi non si vede niente oltre questa superficie bidimensionale imposta allo sguardo; poi, piano piano, con un lento movimento di macchina, l’inquadratura abbandona la tela, lascia il disegno e fissa la ferrovia stessa, in tutta la sua luminosa e inafferrata chiarezza prospettica. In un minuto RER B illustra tutto ciò da cui è composto il cinema della regista francese: un fatto reale, un’immagine evocata a posteriori, lo scarto incolmabile tra quest’immagine limitata e residuale e la verità irrappresentabile del fatto. Niente di nuovo si dirà, sì, è una di quelle equazioni formali interessate a verificare e ratificare l’impossibilità di rappresentare le cose del mondo, la loro verità, scrivendo immagini in negativo, di superficie, che nulla dicono se non del loro limite – tenendo sempre il secondo Wittgenstein come appoggio dichiarato (“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”).
Cosa succede però se questo programma argomentativo viene usato nella finzione? E nel genere? E nella finzione del genere giudiziario, da sempre interessato a inscenare, attraverso la parola e l’espressione, proprio l’emergere della verità più che la costitutiva impasse contro cui ci si scontra nel rappresentarla? Saint Omer risponde a tutte queste domande: è l’esordio nel cinema di finzione di una documentarista che ha sempre lavorato sull’estetica della distanza, della superficie; è un film di genere giudiziario, incentrato su un processo realmente avvenuto nella cittadina di Saint Omer, a cui la regista ha assistito; ma soprattutto è il risultato della rilettura del codice di genere attraverso la chiave delle immagini negative, e quindi la trasformazione del meccanismo del dramma giudiziario da quella lenta ma produttiva macchina di verità che il cinema ci ha abituato a conoscere a una macchina improduttiva, che non genera niente se non immagini di resoconto, immagini, come si diceva, residuali, ex post, tautologie che riportano e corrispondono a dei fatti ma non ne esauriscono l’essenza.
Non è attraverso un mero mistero, una trama da giallo, che Diop sospende il circuito della produzione di verità e lo lascia a girare su se stesso, ma attraverso un soggetto opaco e incomprensibile, che non offre soluzioni ma solo contraddizioni. È Laurence Coly, una donna, madre, immigrata, povera e isolata, accusata di infanticidio, che forse è stata colpita dal malocchio o forse è stata ingannata da chi si è approfittato di lei, o forse non si è resa conto di essere affetta da psicosi. La sua figura sta al centro del testo perfettamente giustificato di Diop e ne rompe tutti gli schemi ordinati, le dinamiche di controllo, la grammatica fatta di piani fissi ed equilibrio cromatico (è in questo modo che la regista rende la dinamica scritta e affermativa della Legge in immagine), facendo precipitare una vibrazione incontrollata nella forma chiusa del tribunale. La verità di Laurence corrisponde per la regista alla verità prospettica della ferrovia di cui sopra: non è un fatto rappresentabile, bensì un asintoto che riprogramma e riorienta la direzione delle immagini non più verso la verità di un profondo psicologico (che comunque non si può cogliere, come la regista attesta nei documentari sulla vita interiore dei soggetti di periferia) ma verso una superficie agentiva e performativa, che “fa” e produce senso senza la spinta di doppifondi letterari bensì attraverso la tensione con qualcosa di non visibile e non dicibile.
Questo qualcosa che non si dà alla visione (come il crimine di Laurence) però si sente come una pressione che bussa alla porta e cerca di irrompere nella stanza della realtà; è una pulsazione che riscrive il gioco delle espressioni e si palesa nella forma di una vertigine irrisolta, che sta tra gli spazi vuoti, e al massimo può essere evocata da un inaspettato scarto di montaggio, da un sospiro fuori campo, dal passaggio di uno spettro luminoso su una parete. Se già prima di Diop alcuni cineasti avevano compreso che il linguaggio va portato ai suoi estremi espressivi per rivelarne la crisi, perché solo nella crisi appare qualcosa che trascende e rilancia i discorsi, in pochi e in poche avevano configurato quest’impasse in senso identitario e quindi sociale per dire di quell’indicibile che è il corpo femminile, materno e nero. In questo senso la rilettura che la regista fa delle immagini della Medea pasoliniana attraverso il suo doppio in scena (Rama, la ragazza che assiste al processo), è esemplificativo: quella Medea non è ripresa solo come supporto teorico (la dialettica tra arcaico religioso e modernità laica) ma come segno puramente visivo da manipolare e da risemantizzare. L’immagine negativa del documentario d’osservazione passa così attraverso la pratica della critica audiovisiva e si fa discorso sociale sul corpo.