American Pastoral
Ewan McGregor affronta il capolavoro di Philip Roth: il suo folle volo di Icaro è destinato al fallimento, si brucia perché si è avvicinato troppo al sole.
C’è un fascino perverso nel mito di Icaro. La sua azione, volare verso il sole con ali di piume incollate con la cera, è simbolo dell’impresa fallimentare: un atto irrazionale e folle, nettamente al di sopra delle proprie possibilità, e perfino poco intelligente. Le ali si sciolgono e lui può solo precipitare. Però almeno ci ha provato. E il tentativo, slegato dalla logica e intimamente connesso alla sopravvalutazione di sé, è il motivo di quello strano fascino che corteggia il masochismo intrecciato all’orgoglio della natura umana. L’idea della splendida sconfitta: partire perdente ma farlo lo stesso, schiantarsi a occhi chiusi contro il muro.
Qui Ewan McGregor è Icaro e il sole è Pastorale americana di Philip Roth, mentre le ali di cera sono la sceneggiatura di John Romano. Autore di molte serie televisive (tra queste Banshee e Hell on Wheels) e alcuni film (il più importante, The Lincoln Lawyer di Brad Furman), Romano non era la persona giusta per riscrivere sullo schermo la storia di Roth del 1997.
La storia di Seymour Levov detto lo Svedese (Ewan McGregor), ex campione di football al liceo, sposato con l’ex miss New Jersey Dawn (Jennifer Connelly), uomo perfetto e capofamiglia esemplare, condensato del Sogno americano. La storia della figlia Merry (Dakota Fanning), attivista di estrema sinistra e contestatrice della guerra in Vietnam, che fa saltare in aria l’emporio del paese, uccide una persona ed entra in clandestinità. La storia della nemesi che arriva con violenza e fa crollare il sogno, del caso che non è mai un caso, dell’idillio che va in pezzi lasciando i protagonisti a chiedersi perché, senza trovare risposte. La storia di una storia, infine, perché la vicenda è raccontata dallo scrittore Nathan Zuckerman (David Strathairn), storico alter ego di Roth, che ricostruisce la vicenda attraverso il suo filtro di autore letterario e in parte – forse – la immagina.
La sceneggiatura di Romano sfronda alcune parti del romanzo, altre le posticipa o anticipa rispetto alla loro posizione naturale: per esempio il confronto tra Dawn e Lou Levov, in cui lei convince il padre che sposerà suo figlio, viene posto all’inizio invece che alla fine, dove Roth lo collocava strategicamente per fornire l’agnizione definitiva sulla sostanza della donna, usandolo come teorica apoteosi del Sogno per preparare al suo dissolvimento. Il copione opera variazioni più o meno decisive: tra le più rilevanti la diminuzione del personaggio di Sheila (Molly Parker), logopedista di Merry e breve amante dello Svedese che nel film diventa una figurina stinta, e soprattutto il cambiamento decisivo del finale.
Assonanze e differenze a parte, però, è proprio lo spirito del film di McGregor/Romano ad essere "sbagliato". Pastorale americana è romanzo inesauribile e non è un’iperbole perché, davvero, offre prospettive inedite e nuovi percorsi possibili a ogni rilettura. Ed è proprio questa inesauribilità, in un certo senso, il punto della questione: perché la rovina dei Levov? Perché Merry diventa terrorista? Perché tante altre cose? Nel libro niente viene spiegato, ogni ipotesi è parziale e non definitiva, le domande tormentate restano e proseguono oltre la pagina; nel film Seymour invita la figlia a "portare la guerra in casa" ("Le hai detto di portare la guerra in casa", ripete e sottolinea la moglie), chiudendo la questione con una nettezza assoluta e totalmente estranea all’opera. È un equivoco, quello di American Pastoral, confermato dall’ulteriore e clamoroso rovesciamento nella scena del bacio: nel romanzo Seymour bacia la piccola Merry "come si bacia la mamma", portandosi dietro l’interrogativo sulle conseguenze di quel gesto; nel film egli, semplicemente, alla richiesta della bambina risponde di no.
Pastorale americana non racconta padre e figlia. È un libro su molte cose, tanto essenziali quanto sfuggenti, irrisolte, contrastanti tra loro: l’illusione della perfezione e l’opportunità di provare a costruirla, il crollo della mitologia americana, il riflesso della politica nel privato, l’amore che muore, il tempo che passa. E molto altro. Ma sarebbe assurdo analizzare il colosso di Roth: basti ricordare che è un romanzo aperto, che fa domande e non dà risposte, non ha soluzioni, riflette solo la dolorosa complessità della vita, dell’uomo e della Storia. McGregor lo trasforma in paternale americana scegliendo il nodo singolo, trasponendo il solo dilemma padre/figlia in modo semplificato e superficiale (alla lettera: che resta in superficie). Ostaggio dell’esposizione senza introiezione, inchiodato agli attori inadeguati (la Connelly leggermente meglio degli altri).
Ci sono due modi di adattare un romanzo, con le infinite vie di mezzo: il rispetto filologico della fonte o il tradimento secondo la riscrittura personale. Entrambi sono leciti – ovviamente – ma il film non segue né l’uno né l’altro: piuttosto anestetizza, rende commerciale, rimastica per il grande pubblico (e un bacio tra padre e figlia è ritenuto troppo per le masse). Poi ci sono le buone intenzioni, e qui McGregor qualche soluzione la propone: come l’inquadratura grossolana ma efficace della bandiera americana, issata sull’emporio prima della bomba, o la piccola Merry che cammina sui sassi aguzzi aiutata dal padre, quando il Sogno è ancora in corso. Ma Icaro è già troppo vicino al sole.
Come alibi parziale va detto che era quasi impossibile cinematografare la scrittura di Roth, soprattutto in passaggi come questo, che descrive l’incontro tra Seymour e Merry: «Piangono a dirotto, il fido padre che è fonte di ogni ordine, che non potrebbe lasciarsi sfuggire o sanzionare il minimo segno del caos - per il quale tenere a bada il caos era stata la via scelta dall’intuizione per raggiungere la certezza, il rigoroso dato quotidiano della vita - e la figlia che è il caos stesso».
Cosa resta del film? Resta, come sempre si dice, la possibilità di avvicinare qualche spettatore al libro. Che stavolta vale doppio perché il libro è il capolavoro di Roth, romanzo definitivo della letteratura americana di fine Novecento.